giovedì 12 aprile 2018

S. Giuseppe Moscati :Ritratti di Santi di padre Antonio Sicari

San Giuseppe Moscati

Tratto dal libro: RITRATTI DI SANTI di Antonio Sicari ed. Jaca Book


Verso la fine di ottobre del 1987 si chiudeva a Roma il Sinodo generale dei Vescovi che per quasi due mesi avevano discusso sul te­ma della «vocazione e missione dei laici nella Chiesa e nel mondo».
Il problema era stato molto dibattuto, anche al di fuori del Sino­do, e non erano mancate certe dure polemiche perché esso faceva emergere con radicalità una questione grave e urgente, quella della «identità cristiana»: che cosa vuol dire oggi essere cristiani, senza ag­gettivi o ruoli specifici, collocati esattamente là dove tutti gli altri uomini vivono e costruiscono la storia?
Prima che i Vescovi se ne partissero da Roma — nonostante che le conclusioni del dibattito non fossero state ancora tratte — il Papa decise di intervenire, in modo indiretto ma denso di significato, of­frendo come esempio la figura e l’esperienza di un cristiano, laico ap­punto.
Procedette dunque a una canonizzazione, introducendola così:
«L’uomo che oggi invocheremo come Santo della Chiesa universale si presenta a noi come un’attuazione concreta dell’ideale del cristia­no laico: Giuseppe Moscati, medico primario ospedaliero, insigne ri­cercatore, docente universitario di fisiologia umana e di chimica fi­siologica….».

Non molti, a dire il vero, conoscevano Moscati: la maggior par­te, tra Vescovi e fedeli, si accontentò di veder confermato un punto essenziale dell’insegnamento conciliare: che anche i laici, cioè, sono chiamati alla santità e possono realizzarla nel mondo, nell’esercizio della loro professione secolare.
Qualcuno sapeva qualcosa di più e poteva predicare a lungo sulle particolari virtù di questo nuovo santo, soprattutto quelle oggi più apprezzate: amore ai poveri, disinteresse a tutta prova, coerenza evangelica, sacrificio di sé...
Pochissimi però — anche tra gli esperti — sono stati disposti a confrontarsi con un dato irriducibile e particolarmente urtante: la concezione di «laicità» vissuta e difesa da Moscati.
Diciamolo subito a chiare lettere: dal punto di vista «laicale» Moscati si comportò nel modo esattamente opposto a quello insegna­to da tutti coloro che si affannano a descrivere esattamente i limiti entro i quali un laico deve restare: Moscati non ebbe limiti, non ri­spettò distinzioni.
Gli intellettuali cattolici oggi amano molto l’imprecisa formula maritainiana che insegna a «distinguere per unire». Altri suggerisco­no più correttamente di «distinguere (piuttosto) nell’unito». E tutti intendono dire che bisogna saper collegare assieme con prudenza ciò che appartiene alla fede e ciò che appartiene alla scienza, ciò che ap­partiene alla «Chiesa» e ciò che appartiene al «mondo», ciò che è do­vuto alla propria professione cristiana e ciò che è dovuto alla propria professione sociale.
Ebbene, noi non vogliamo dire che questi problemi non siano veri o non siano importanti.
Diciamo semplicemente che se Moscati ebbe un carisma e un compito nella Chiesa, esso fu quello di mostrare una tale unità tra i vari campi (prima e oltre ogni possibile distinzione) da rasentare l’in­credibile: nessuno oggi oserebbe imitarlo nel modo con cui egli in­trecciava insieme scienza e fede, professione umana e professione cristiana, cura del corpo e cura dell’anima. Anzi, questi aspetti della sua vita vengono raccontati con disagio, vengono minimizzati dai biografi. Insomma, inserire veramente l’esempio di Moscati nell’at­tuale dibattito sulla laicità si rivela come una operazione dirompente e non priva di umorismo.
Ma iniziamo pure da quel che è più ovvio: la conferma della vocazione universale dei cristiani alla santità: tutti possono diventare santi.
Giovanni Paolo II, canonizzando Moscati, non ha detto ai laici di imparare in primo luogo le sue virtù morali, ma di imparare a ri­flettere sulla propria vocazione: «La Chiesa, ponendo davanti ai no­stri occhi la figura di Uno elevato alla gloria degli altari..., dice a tut­ti i laici: “considerate la vostra vocazione!”».
Anche noi comunque cominceremo raccontando gli esempi mo­rali che il Santo ci ha lasciato, ma lo faremo ricordando costante­mente che i suoi atteggiamenti virtuosi sono come le annotazioni scritte sulla sua carta d’identità: servono a identificarlo, ma non so­no la sua identità. L’identità emergerà piuttosto da questo volto per­sonale, da quel cuore, in cui si evidenzierà il suo modo di considerare il rapporto medico-malato come evento integrale di salvezza cri­stiana.
Giuseppe Moscati nasce nel 1880, a Benevento. Ha appena un anno di vita quando il papà, magistrato, viene trasferito ad Ancona e poi (quando Peppino ha solo 4 anni) alla Corte d’Appello di Napoli.
Napoli sarà dunque la sua città: dove riceve la prima Comunio­ne, si iscrive al ginnasio, dà la maturità classica e si laurea in medici­na nel 1903.
Una infanzia e una giovinezza assolutamente normali, in una f a­miglia veramente cristiana, nella quale non mancano le sventure: il papà muore improvvisamente quando Peppino si è appena iscritto all’università; qualche anno dopo, in seguito a lunga malattia, gli muore un fratello che ha solo 32 anni. La carriera medica di Giusep­pe Moscati durerà 24 anni, poiché egli muore nel 1927, ad appena quarantasette anni di età.
Vince il concorso per Aiuto straordinario agli Ospedali Riuniti di Napoli nel 1903. Durante l’eruzione del Vesuvio gli è affidata la responsabilità dell’ospedale di Torre del Greco, da cui porta in salvo i malati a rischio della sua stessa vita.
Nel 1908 è Assistente ordinario nell’Istituto di Chimica fisiolo­gica.
Nel 1911 diventa Aiuto ordinario negli Ospedali Riuniti, vin­cendo un concorso a cui partecipano i più colti medici e docenti del Mezzogiorno, dato che è un concorso atteso da trent’anni. Moscati è il più giovane e vince superando ben due futuri direttori di clinica universitaria. E nominato socio della Regia Accademia Medico-chi­rurgica. Nello stesso anno ottiene la Libera Docenza in chimica fi­siologica e praticherà l’insegnamento in ospedale per più di 12 anni.
Nel 1919 è nominato Primario della tu Sala degli Incurabili.
Nel 1922 una Commissione appositamente nominata dal mini­stero della Pubblica Istruzione gli conferisce anche la Libera Docen­za per titoli in clinica medica generale.
Nel 1923 è inviato quale rappresentante del Governo italiano al Congresso internazionale di fisiologia, a Edimburgo.
Abbiamo voluto rileggere in modo scarno e ridotto il curriculum della sua carriera professionale proprio per far percepire — col sem­plice scandire date, titoli e specializzazioni — una vita tesa intelligen­temente a ciò che qualunque studente di medicina sogna per sé, an­che se in forme e indirizzi diversi. Aggiungiamo solo che — se Moscati l’avesse soltanto voluto — la Facoltà di Medicina di Napoli era pronta ad offrirgli la cattedra in Chimica fisiologica.
Una esposizione simile potremmo fare elencando i titoli delle sue pubblicazioni scientifiche: dalla tesi di laurea, giudicata degna di pubblicazione, che aveva a tema «L’ureogenesi epatica», agli ultimi due articoli scritti per la Riforma medica (rivista di cui era redattore per le lingue inglese, tedesca, francese e spagnola): un articolo «Sul cosiddetto antagonismo tra surrenale e pancreas» e uno su «Le vie linfatiche dall’intestino ai polmoni».
Ma in che cosa dunque Moscati, che seppe percorrere così bril­lantemente e velocemente la sua carriera professionale, maturò una particolare santità?
Dobbiamo anzitutto ripensare al tempo in cui egli visse. Scrive giustamente un suo biografo: «La figura di Moscati deve essere in­quadrata nel clima culturale dominato dal positivismo che dilaga ne­gli ultimi anni dell’800 e nei primi del ‘900. Egli fece parte del grup­po di laici che, nonostante la tendenza del momento, contribuirono in modo determinante a far riscoprire nel mondo la vitalità e la pe­renne giovinezza della Chiesa».

Il documento che introduce la sua causa di beatificazione (du­rante la quale furono raccolte tutte le testimonianze che lo riguarda­no) inizia con una osservazione interessante, soprattutto perché risa­le all’immediato dopoguerra: «Il Servo di Dio visse in questo nostro tempo in cui per colpa del laicismo, come si usa dire, la massa della gente è stata strappata dalla Chiesa, la fede è stata separata e messa in opposizione alla scienza, la professione della fede cristiana è stata separata dalla professione delle arti liberali e dagli impegni civili ed è stata relegata nel chiuso degli invisibili confini della coscienza. Con­tro tale nefastissimo laicismo la Divina Provvidenza suscitò laici esi­mi che, dotati di spirito apostolico, in qualche modo potessero eser­citare e aiutare il sacerdozio (sacerdotalia munera), esimi dottori che in se stessi mostrassero mirabilmente l’unione di fede e scienza, esi­mi cittadini che nella propria professione, professando ognuno aper­tamente la fede, eccellessero tra tutti per probità, e fossero di som­mo giovamento alla società».
Il merito di questa impostazione — che i successivi biografi ebbe­ro il torto di trascurare — è quello di individuare bene il cuore della testimonianza di Moscati, evitando di presentarlo subito, e astoricamente, come il «medico santo» solo per il suo comportamento disin­teressato, per la sua modestia, per la sua sobrietà, o per l’essersi mes­so a servizio gratuito dei più diseredati.
Certo, anche questi aspetti furono splendidi e commoventi e non vanno affatto trascurati, ma, a insistere su di essi, si rischia di osser­vare e amare il colore e la forma dei fiori senza prendersi cura della radice che li nutre.
Cominciamo pure, comunque, da questi ricordi più immediata­mente affascinanti.
Celebre era, tra i colleghi di Moscati, il suo assoluto disinteresse per il denaro. Ecco la significativa testimonianza di un medico che spesso lo osservò nell’esercizio della professione: «Egli, che amava vedere negli ammalati la dolorosa figura di Cristo, non voleva rice­vere denaro e di ogni offerta soffriva visibilmente.
Se visitava dei ricchi o dei benestanti, certo accettava il denaro dovuto, ma la sua preoccupazione — davanti a se stesso e davanti a Dio — restava tuttavia quella di non essere mai un approfittatore».
Ecco una lettera indirizzata alla moglie di un paziente: «Egregia Signora, vi restituisco parte dell’onorario perché mi sembra che mi abbiate dato troppo. Certo, da altri, che fossero pescecani, io pren­derei di più, ma da uomini di lavoro, no. Spero che Dio vi doni la gioia della guarigione di vostro marito. E fate che costui non si allon­tani da Dio e frequenti la fonte della salute (la santa Comunione). Vi saluto. G. Moscati».

Un giorno venne chiamato ripetutamente al capezzale di un ra­gazzo quindicenne di cui egli si prese cura fino alla completa guari­gione. Quando tutto fu finito ricevette una busta con l’onorario. La aprì mentre tornava a casa e si accorse che conteneva una somma al­lora notevole: mille lire. Lo videro tornare bruscamente indietro, sa­lire agitato le scale e tendere nervosamente la busta con queste paro­le: «O voi siete pazzi o mi avete preso per un ladro».
I parenti pensarono che il celebre professore fosse scontento d’a­ver ricevuto troppo poco e il padre del ragazzo, impacciato, gli tese un altro biglietto da mille. Ma il professore non solo scartò con im­pazienza quella nuova offerta, ma, aprendo il portafoglio, restituì ot­tocento lire affermando che duecento erano più che sufficienti. Poi se ne andò tutto contento, lasciando esterrefatti gli astanti.
Se dunque i ricchi se lo contendevano per la sua fama di diagno­stico, i poveri gli si riversavano addosso perché sapevano che non sa­rebbe stato chiesto loro nulla, o addirittura ci avrebbero guadagna­to. Nei casi più dolorosi infatti Moscati giungeva fino a mettere lui qualche banconota in mezzo alla ricetta, o sotto il cuscino del pa­ziente di cui intuiva le condizioni disagiate, soprattutto quando s’ac­corgeva che la malattia era provocata o aggravata dalla denutrizione.
A volte provvedeva lui stesso all’acquisto delle medicine che aveva prescritto o a pagare la retta dell’ospedale per chi non ne avrebbe avuto la possibilità.
Un giorno un collega che l’aveva accompagnato per una visita gli fece osservare, a nome della categoria, che il suo disinteresse per il denaro li metteva tutti in difficoltà, ma la risposta che ne ebbe — nel quasi dialetto napoletano che Moscati normalmente usava — fu assai espressiva: «Peppì, scusate: ‘lla ce sta ‘na mamma che piange per la salute del figlio e vuie me venite a parla’ ‘e solde!».
Lo si poteva chiamare nei quartieri più malfamati, nei vicoli bui dove era pericoloso anche solo avventurarsi, in quegli androni fati­scenti dove era costretto a farsi luce con un cerino, ed egli non rifiu­tava mai di recarvisi. Se lo si metteva in guardia rispondeva: «Non si può avere paura, quando si va a fare del bene».

Lo incontrò un amico di sera, al Vomero, in piazza Vanvitelli, lontano dal solito giro. Gli chiese cosa stesse facendo da quelle parti:
«Sai — disse Moscati ridendo — vengo ogni giorno a fare da sputac­chiera per un povero studente».

Si trattava di un giovane che viveva solo in una camera d’affitto, malato di TBC, anche se non in fase contagiosa. Se i padroni l’avesse­ro saputo, l’avrebbero cacciato sulla strada, e allora Moscati veniva ogni sera a portar via i fazzoletti pieni di catarro per bruciarli, e ne lasciava di puliti.
In casa Moscati, la sorella che lo assisteva riceveva tutti i suoi guadagni e li amministrava con l’impegno di trattenere il necessario per vivere decorosamente e di destinare il resto ai bisognosi. Lo stes­so professore tornava dalle visite portando con sé gli indirizzi delle famiglie povere che aveva incontrato, li passava alla sorella e le dice­va di provvedere.
Un episodio tra tutti è di una tenerezza e di una bontà senza pari.

C’era un vecchietto povero e solo, che un tempo era stato com­positore di canzoni (in quegli anni a Napoli furono composte le più celebri melodie!): le sue condizioni erano critiche anche se non di­sperate e il male poteva aggravarsi improvvisamente. Avrebbe avuto
bisogno di controlli quotidiani, ma Moscati non glieli poteva garan­tire, assorbito com’era dal lavoro in ospedale. Si misero d’accordo così: tutte le mattine il vecchietto si faceva trovare in un caffè, lungo la strada che Moscati percorreva per recarsi in ospedale e lì consuma­va (a spese del Professore, s’intende) una bella tazza di latte caldo e biscotti. Il Professore passava, metteva dentro la testa, controllava che egli fosse presente, gli sorrideva e se ne andava in fretta. Se qual­che mattina non lo vedeva, allora sapeva di doverlo raggiungere al più presto nel suo tugurio fuori mano, per soccorrerlo.
I racconti si potrebbero moltiplicare, ma non devono far dimen­ticare che la carità di Moscati non era quella di un tranquillo bene-fattore, ma quella di un medico di prestigio alle prese con una pro­fessione stressante, lacerato da richieste molteplici: come studioso doveva aggiornarsi, fare esperimenti di laboratorio, scrivere relazio­ni scientifiche; come medico la sua presenza era necessaria sia all’o­spedale, sia nelle case dei privati che gli inviavano continue richieste e sollecitazioni; come libero docente doveva preparare lezioni, inse­gnare, seguire il lavoro dei discepoli e — in tutto questo e al di là di tutto questo — c’era la sua decisione «cristiana» di non sottrarsi mai alle richieste dei più poveri.
Alla sua morte prematura gli amici parleranno della sua «fatica quotidiana, a tutte le ore, senza riposo, senza tregua, senza respiro». A chi gli chiedeva come facesse a resistere, rispondeva semplicemen­te: «Chi fa la Comunione tutte le mattine ha con sé un’energia che non viene mai meno».
A testimonianza delle sue capacità mediche possiamo ricordare il suo incontro col celebre tenore Enrico Caruso. Questi tornava nella sua Napoli dopo che a New York durante un concerto era stato stroncato da una emorragia. Aveva consultato, in America, i più illu­stri clinici; lo stesso aveva fatto a Roma, e nessuno era riuscito a far­gli una diagnosi utile. Finalmente era giunto da Moscati. Era ormai troppo tardi e gli restavano solo due mesi di vita, ma l’intuito del medico napoletano diagnosticò subito che si trattava di un ascesso subfrenico.
Tutti dovettero poi dargli ragione, anche se era una scienza or­mai inutile per il quarantottenne tenore che era partito povero da Napoli e vi ritornava nel 1921 con un patrimonio valutato più di cin­quanta milioni d’allora.
Non gli servì la scienza di Moscati, ma gli servì la sua fede. Egli infatti non esitò a dire a Caruso «che aveva consultato tutti i medici, ma non aveva consultato Gesù Cristo».

E il tenore rispose: «Professore, fate quello che volete».
Ed egli si preoccupò che gli portassero in tempo gli ultimi sacra­menti, assistendolo fraternamente fino alla fine.
Torniamo per ora alla sua fama di medico.

«Giungeva — testimoniò un suo collega — a sfumature diagnosti­che che sbalordivano discepoli e maestri».
Basterà dire che colui che allora era considerato da tutti il Mae­stro dei maestri — quell’Antonio Cardarelli che era divenuto in Italia una istituzione — considerava Moscati come suo discepolo prediletto («il migliore che ho avuto in sessant’anni», diceva), lo aveva scelto come suo medico personale e a volte si commuoveva fino alle lacrime quando lo osservava nell’esercizio dell’arte medica.
A parte le visite ai malati e l’enorme clientela che giungeva da tutto il meridione e letteralmente lo soffocava, il suo ininterrotto la­voro aveva luogo nelle corsie dell’ospedale, che egli percorreva attor­niato dai suoi discepoli, ai quali insegnava medicina direttamente dalla osservazione dei malati («trattava anche gli studenti del primo anno come ‘colleghi’ e non mancava mai di chiedere la loro opi­nione»).
Soleva dire: «Vicino all’ammalato non ci sono gerarchie. Tutti veniamo qui per apprendere: direttori, coadiutori, assistenti, siamo tutti presso il letto dell’infermo, perché l’ammalato rappresenta il li­bro della natura».
La lezione continuava poi nell’anfiteatro anatomico.
L’istituto anatomo-patologico era allora in decadenza: nessuno voleva occuparsene e Moscati aveva accettato di curarne a titolo gra­tuito «la riorganizzazione e il razionale funzionamento». Sulla parete d’ingresso c’era un vecchio motto scelto dal fondatore, a cui nessuno prestava più molta attenzione. Diceva: «Hic est locus ubi mors gau­det succurrere vitam», «questo è il luogo in cui la morte è lieta di po­ter soccorrere la vita».
Moscati cominciò col far appendere a quelle spoglie pareti un bel crocifisso e, sotto, la scritta: «O mors, ero mors tua», «O morte, io sarò la tua morte!». Con questa promessa del Risorto, Moscati ri­scattava quel luogo definito da tutti «malsano, disadorno, gretto, op­primente».
Quando il gruppo entrava e si disponeva attorno al professore, egli guardava un attimo la croce e tutti si accorgevano che stava si­lenziosamente pregando; poi cominciava a sezionare iniziando sem­pre con qualche richiamo breve ma assai esplicito: «Qui finisce la su­perbia dell’uomo! Ecco che cosa siamo! Come è istruttiva la morte!». Oppure, indicando il cadavere, diceva: «Mentre l’altro giorno costui era un nostro paziente, oggi vediamo alcuni organi che gli apparten­nero... Se voi giovani faceste di tanto in tanto la considerazione del­la morte, sareste molto più buoni».
Così quell’istituto, che era — come egli amava sempre ripete­re — «il luogo in cui noi medici controlliamo le nostre diagnosi e i no­stri errori», nonostante la modestia dei locali e l’insufficienza dei mezzi tecnici, raggiunse a detta di tutti «il suo massimo splendore dal punto di vista scientifico».
I discepoli che seguivano quotidianamente Moscati letteralmen­te lo veneravano e molti lo accompagnavano fino a casa, continuan­do per via a discutere con lui e a interrogano. Uno di loro rievoca commosso la scena divenuta familiare a Napoli: «Lo portavamo in processione come se fosse un santo». E quasi tutti finivano, dopo il giro domenicale nelle corsie, per accompagnarlo a Messa.
Il professore stesso scriveva in una lettera: «Ho formato come una comunità religiosa di frati: i miei amici e io lavoriamo insieme con emulazione, con idealizzazione. Siamo tanto sentimentali! Iddio ci guida. Ho creduto che tutti i giovani [...] avessero il diritto di per­fezionarsi leggendo un libro che non fu stampato in caratteri, nero su bianco, ma che ha per copertina i letti ospedalieri e le sale di labo­ratorio, per contenuto la dolorante carne degli uomini e il materiale scientifico, libro che deve essere letto con infinito amore e con gran­de sacrificio per il prossimo» (11 settembre 1923).
E aggiungeva: «Ho pensato che fosse debito di coscienza istruire i giovani aborrendo dall’andazzo di tenere misterioso gelosamente il frutto della propria esperienza, ma rivelarlo loro...».

Questa concezione quasi monastica della propria vocazione e della comunità ospedaliera ci rimanda a un’altra caratteristica della laicità di Moscati, ad una novità.
In un tempo in cui le vocazioni si dividevano in forma piuttosto netta (o matrimonio o convento), Moscati scelse di restare nel mon­do, completamente laico — senza particolari appartenenze a istituti religiosi, nemmeno come «terzlario» — ma scegliendo coscientemen­te la condizione verginale.
In un biglietto che la sorella raccolse dal cestino della carta strac­cia leggiamo una specie di confessione che egli scrisse per se stesso:
«Mio Gesù amore! Il vostro amore mi rende sublime; il vostro amore mi santifica, mi volge non verso una sola creatura, ma a tutte le crea­ture, all’infinita bellezza di tutti gli esseri, creati a vostra immagine e somiglianza».

Trattare Gesù come una persona cara, alla quale ci si rivolge con le parole più affettuose e con la quale si esperimenta una intimità bruciante, sembra ridicolo ai nazionalisti di tutti i tempi e sembra anche a molti cristiani un’esperienza possibile solo nella penombra mistica dei monasteri.
Ma che questo possa accadere nel mondo, là dove il lavoro diven­ta per molti l’unico dio e dove le preoccupazioni scientifiche e mate­riali sembrano invadere anche lo spirito, questo è per il mondo un in­terrogativo che si apre direttamente sul mistero del Figlio di Dio, di­venuto «nostro prossimo»: al quale cioè possiamo dare con somma verità tutti i nomi più familiari.
Racconta un sacerdote che ascoltava spesso la sua confessione:
«Richiesto da me che cosa avesse pensato in una tramvia affollatissi­ma dove c’eravamo trovati insieme e aveva anche pagato per me il biglietto, mi rispose: “A Dio, padre, al cielo”».

«Amare Dio senza misura nell’amore, senza misura nel dolore»; questa era la massima che identificava assieme sia la sua missione di
medico cristiano, sia lo sguardo con cui osservava i malati. Eppure i tempi, allora, e l’ambiente non erano per nulla facili.
Ecco alcune testimonianze tratte dai processi di beatificazione:
«Il servo di Dio subiva la lotta di tutti i medici iscritti alla massone­ria per la sua aperta professione cristiana e anche di quelli che vede­vano in lui un competitore valentissimo, benché di giovane età».

Questo odio massonico contro Moscati aveva dunque un risvolto inconfessabile («la gelosia e l’invidia di chi non sapeva tollerare la su­periorità scientifica di lui») e un motivo ufficialmente sbandierato con acre insistenza.
Dice un testimone: «Era disprezzato, motteggiato da quelli che non vedevano bene la sua franca, schietta e coraggiosa professione di fede cattolica: lo chiamavano maniaco, isterico, esaltato, fanatico».
Altre ingiurie che gli gettavano addosso (e qualche collega più ar­rabbiato faceva in modo che gli giungessero all’orecchio, quando passava) erano quelle di «fanatico, iettatore, pazzo da manicomio, medico di preti e suore».
Moscati viveva, dunque, in un ambiente frequentato da medici di dichiarata appartenenza massonica e di aperta professione mate­rialista, ed egli lo sapeva benissimo. Anzi quando era in gioco la veri­tà e la giustizia ne parlava senza mezzi termini.
«Io — scriveva in una lettera — sono una stella di infima grandez­za in mezzo a tanti astri brillanti e sarò contento di eclissarmi, se pe­rò saranno gli astri illuminati a sorgere e non alcune fiacche nebu­lose..
Nei concorsi chiedeva che non ci fossero «né compromessi, né manovre traverse..., ma solo riconoscimento del valore assoluto al­l’infuori di età, di scuola, di sette».
In una lettera da lui indirizzata a Benedetto Croce, allora mini­stro della Pubblica Istruzione, Moscati caldeggiava la nomina alla Cattedra di Igiene di un collega da lui ritenuto il più idoneo e non ebbe paura di scrivergli: «So che un pezzo altissimo della Massoneria vuol venire a ingrossare il numero dei ‘fratelli’ nella Facoltà che è di­venuta per questi ultimi una casa grande».

Certi testimoni dicono esplicitamente e senza mezzi termini sull’atteggiamento che la setta aveva verso Moscati: «volevano distrug­gerlo, annientarlo».
Ma notavano anche che la lotta non lo scalfiva neppure: «Tutti sapevano — dice un testimone — che il Professor Moscati era come un sacerdote, e la lotta fattagli dai massoni medici e dagli altri colleghi materialisti non l’ha mai abbattuto... Soleva dirmi: “Che cosa m’im­porta degli altri? Il mio pensiero è contentare Dio”».

Del resto vedremo tra breve che la professione di fede del Mo­scati era pubblica in modo quasi intollerabile, tanto che oggi verreb­be forse criticata anche dai credenti più pii e integristi.
Nei processi canonici, durante i quali i suoi atteggiamenti sono stati minuziosamente analizzati e giudicati, la domanda ricorrente del giudice ecclesiastico (nemmeno tanto velata) è questa: «Moscati era un maniaco religioso?». «No rispondono tutti i testimoni — era equilibrato, attento, rispettoso». E tuttavia aveva della sua profes­sione medica un’idea — e conseguentemente una prassi — certo non usuale.
Il problema consisteva in questo: Moscati era assolutamente convinto «che il medico non deve guardare solamente la salute del corpo dell’infermo, ma anche sopperire ai bisogni del malato e della sua famiglia, sotto qualunque aspetto si potesse considerare il bisogno».
Perciò egli si era imposto quell’ atteggiamento caritatevole verso tutti i bisognosi di cui abbiamo parlato. Ma con la stessa inesorabile logica egli considerava come prioritario il bisogno spirituale dei pa­zienti e la cura delle loro anime.
Esprimiamoci con assoluta chiarezza. Dice un testimone: «I ma­lati sapevano che per essere curati da Moscati bisognava frequentare i Sacramenti». E ancora: «A tutti i malati domandava se erano in grazia di Dio, se frequentavano i Sacramenti, se erano in regola con la loro coscienza. Insomma, curava prima l’anima e poi il corpo degli infermi che andavano da lui».

Moscati sosteneva tranquillamente che nell’ospedale «missione di tutti» — suore, infermieri, medici — era «collaborare alla misericor­dia di Dio».
La suora del suo reparto doveva anzitutto interessarsi della situazione spirituale del paziente in modo da poterne avvertire il pro­fessore: il quale, mentre esercitava la sua arte medica con tutta la bravura e la dedizione possibile, riusciva a far percepire al malato la globalità del suo problema, l’integralità del suo bisogno, e quasi sem­pre riusciva a portarlo con ferma dolcezza a un desiderio di guarigio­ne intesa davvero come «salvezza».
Espressioni come «confessatevi», «mettetevi in grazia di Dio», «accostatevi al Signore», «pensate all’anima immortale», «Dio è il padrone della vita e della morte» entravano o prima o poi nelle indi­cazioni «sanitarie» che Moscati dava ai suoi pazienti, soprattutto quando si accorgeva che la loro vita era in pericolo e in pericolo era il loro destino eterno. Il fatto è che, quando le usava, gli volevano già così bene che quasi sempre le accettavano con riconoscenza, e molti gli obbedivano.
A un illustre avvocato milanese, dopo aver fatto la diagnosi sul suo stato di malattia, consegnò una lettera in cui gli indicava il nome di un prete della sua città «perché si mettesse in pace con Dio, sicco­me da anni se ne era allontanato, altrimenti non avrebbe potuto cu­rargli il corpo».
A un altro che, dopo un mese di cura, non sembrava reagire alla terapia, disse candidamente: «Voi non vi siete confessato, perciò non guarite. Iddio così ve lo ricorda».
A chi si meravigliava del suo stile spiegava così: «E mia abitudi­ne di parlare agli infermi di altre cose oltre il corpo, perché essi han­no anche un’anima... La cosiddetta psicanalisi di Freud è una cura; che cosa è la psicanalisi? È la confessione fatta al medico per scardi­nare le idee fisse. Ma questo va bene per i paesi protestanti dove non c’è la confessione: presso di noi c’è la confessione cattolica».

A un giovane, la cui più grave malattia sembrava l’assoluta man­canza di spina dorsale, diede una ricetta su cui c’era scritto: «Cura di Eucaristia».
È difficile per noi immaginare come Moscati coniugasse la cura dello spirito con quella del corpo (da notare che egli introduceva il problema, poi rimandava i «malati d’anima» a qualche prete di sua conoscenza, e si interessava personalmente che l’incontro avesse luogo).
In una lettera a un collega Moscati scrive: «Beati noi medici se ricordiamo che oltre i corpi abbiamo di fronte delle anime immortali per le quali urge il precetto evangelico di amarle come noi stessi. Lì è la soddisfazione e non nel sentirci proclamare risanatori di un male fisico» (E aggiungeva con un pizzico di ironia: «Soprattutto quando la coscienza ci ammonisce che il male fisico guarisce da sé!»).

«È il medico dei corpi e delle anime», diceva di lui Bartolo Lon­go — il costruttore del Santuario di Pompei, anch’egli oggi Beato— quando si faceva visitare.
In molte lettere si vede come il Professore inculcasse questi prin­cipi nei suoi allievi: «Abbiate, nella missione affidatavi dalla Provvi­denza, vivissimo il senso del dovere: pensate cioè che i vostri infermi hanno soprattutto un’anima a cui dovete sapervi avvicinare, e che dovete avvicinare a Dio; pensate che vi incombe l’obbligo di amore allo studio, perché solo così potete adempiere il grande mandato di soccorrere l’infelicità. Scienza e fede!» (16 luglio 1926).
«Ricordatevi che non solo del corpo vi dovete preoccupare, ma delle anime gementi che ricorrono a voi. Quanti dolori voi lenirete più facilmente con il consiglio e ricorrendo allo spirito, anziché con le fredde prescrizioni da inviare al farmacista» (1923).

A un paziente raccomandava: «Vi prego di ricordarvi dei giorni vostri d’infanzia e dei sentimenti che vi tramandarono i vostri cari, la vostra mamma; tornate all’osservanza e vi giuro che, oltre il vo­stro spirito, ne sarà nutrita la vostra carne: guarirete con l’anima e con il corpo, perché avrete preso la prima medicina, l’infinito amo­re» (23 giugno 1923).
Ma bisogna insistere nel ricordare che Moscati non faceva il gua­ritore o il santone: faceva il medico e lo faceva alla perfezione, ma era parimenti convinto d’avere davanti soprattutto un’anima im­mortale.
Mai tuttavia deviava nello spiritualistico, trascurando il corpo. A una suora che lo voleva trascinare a una sacra funzione durante l’orario di lavoro rispose brusco: «Suora, Iddio si serve lavorando».

E a una pia signora, che rifiutava di curarsi perché diceva che le
bastava pregare, ribatté: «Per la vostra anima vale più fare una sola iniezione per la vostra malattia che dire molte preghiere».

La personalità integrale di Moscati emerse, sotto gli occhi di tut­ti i suoi colleghi, anche di quelli dei suoi nemici, in un episodio che restò celebre negli annali di Napoli.
Era il febbraio 1927 (due mesi prima della morte di Moscati, che nulla faceva allora prevedere). Veniva a Napoli, per parlare a un con­gresso medico, il celebre professor Leonardo Bianchi: era stato tito­lare della cattedra di Psichiatria e Neurochirurgia, prima a Palermo, poi a Napoli. Era stato Ministro della Pubblica Istruzione, poi Mini­stro della Difesa e Vicepresidente della Camera dei Deputati. A 75 anni aveva pubblicato il libro La meccanica del cervello. Inoltre era uno tra i più noti massoni che appena qualche anno prima aveva te­nuto una pubblica conferenza contro Gesù Cristo.
Il settantanovenne professore parlò davanti a un’aula gremita di medici e docenti ed ecco che, mentre scrosciano gli applausi, egli si accascia al suolo. C’erano presenti medici specialisti per ogni urgen­za e tutti si accostarono, compreso Moscati. Ma ascoltiamo diretta­mente la testimonianza del santo: «Non volevo andare a quella con­ferenza essendomi da lungo tempo allontanato dall’ambiente dell’U­niversità, ma quel giorno una forza sovrumana, alla quale non seppi resistere, mi ci spinse... Si avverò quello che dice la parabola del Vangelo che i chiamati all’undicesima ora avranno la stessa ricom­pensa di quelli chiamati alla prima ora del giorno. Sento ancora ora l’impressione di quello sguardo (del morente) che cercava me tra tan­ti docenti convenuti... E Leonardo Bianchi sapeva bene i miei senti­menti religiosi, conoscendomi fin da quando io ero studente. Gli corsi vicino, gli suggerii parole di pentimento e di fiducia, mentre egli mi stringeva la mano, non potendo parlare...».

Proviamo a immaginare, in quel tempio della Massoneria che era allora l’Università di Napoli, non solo l’inaudito ingresso di un prete con i Sacramenti (fatto chiamare da Moscati), ma la scena del vec­chio massone morente fra le braccia del più santo dei medici mentre costui recita a voce chiara l’atto di dolore e il Credo.
Questi era Moscati.
E potremmo riportare la testimonianza scossa, sconvolta quasi, di altri notissimi esponenti della cultura e della medicina che, fre­quentando questo insolito tipo di cristiano (da notare che con Mo­scati si poteva parlare di filosofia, di arte, di letteratura, di musica, di teologia, di urbanistica, e sempre con profitto e godimento intel­lettuale), divennero pensosi sulla propria identità e sul proprio de­stino.
Un altro celebre medico napoletano, il Castellino, non «creden­te», disse di lui: «Era una delle creature più care, che amava vivere nel colloquio continuo con Cristo che forza i sepolcri e vince la morte».

Un altro medico disse: «Fu la più perfetta incarnazione che io abbia mai conosciuto della carità di cui parla san Paolo nella lettera ai Corinzi».

Tutti sanno quale sia stata la posizione di Benedetto Croce. Ebbe­ne, il filosofo abitava in un’alta mansarda da cui tutte le mattine vede­va passare Moscati che frettolosamente si recava in ospedale. Spesso i due si incontravano e chiacchieravano assieme. A volte non c’era tem­po e allora il filosofo dal balcone lo chiamava da buon napoletano:
«Don Peppino non te capisco, perché corri tanto? Dove vai? Che speri di raggiungere...? Tutto viene a tempo».
E poi, rientrando, alla sua domestica diceva: «Fossero tutti così i cattolici.., tutti come don Peppino!».

Chi era dunque quest’uomo che a se stesso, nelle pagine del suo diario diceva: «Ama la verità, mostrati quale sei e senza infingimenti e senza paure e senza riguardi. E se la verità ti costa persecuzione, e tu accettala; e se (ti costa) il tormento, e tu sopportalo. E se per la verità dovessi sacrificare te stesso e la tua vita, e tu sii forte nel sacri­ficio».

Giungiamo così a quel problema fondamentale da cui siamo par­titi senza volerlo risolvere in anticipo: che cos’è la laicità cristiana? Quest’uomo, che la Chiesa ha posto sugli altari, l’ha compresa in un modo, con uno stile, che oggi, in un ospedale, non usa più neanche il cappellano deputato all’assistenza dei malati. Era un vero laico? O
era un laico che assumeva indebitamente il ruolo del prete? Il suo vo­ler «curare anche l’anima» era una pretesa assurda e integrista o era una profezia? In che senso lo si può oggi proporre come esempio di laicità cristiana?
Noi non possiamo qui affrontare il problema dal punto di vista di una completa riflessione teologica, richiamando i necessari princi­pi e conducendo le opportune analisi.
Possiamo dare per ammesso che c’è in Moscati anche qualcosa di unico e irripetibile: non è copiando i suoi modi di fare (atteggiamen­ti, indicazioni, espressioni) che lo si può imitare, ma comprendendo anzitutto il lavoro che la grazia di Dio ha operato in lui: un lavoro di «unificazione», di «integrazione» a cui la creatura si rende totalmen­te disponibile: questo lavoro bisogna anzitutto desiderare per sé, ad esso bisogna anzitutto disporsi con grande umiltà e ascesi.
Viviamo in un’epoca in cui noi cristiani siamo diventati abilissi­mi a «distinguere»: natura e soprannatura, chiesa e mondo, fede e ra­gione, rivelazione e scienza, evangelizzazione e promozione umana, unità e pluralismo, ecc. Ma queste attente distinzioni dovrebbero es­sere applicate da un soggetto, da un «io» così totalmente appartenen­te a Cristo, così organicamente innestato nella Chiesa che le distin­zioni gli servono ad esprimere solo i diversi metodi secondo cui flui­sce e si dilata e si applica una stessa e identica carità. Invece troppo spesso le distinzioni servono come alibi intellettualistico per nascon­dere e giustificare una identità incompiuta o timida o faticosamente aggiustata, se non addirittura disgregata.
E così ogni tanto Dio decide di offrirci delle «forme» integrali, dei modelli cristiani talmente integri che si vorrebbe quasi accusarli di integrismo, se non fosse che l’unità della «forma cristiana» irrag­gia da ogni parte. Qui possiamo solo delineare per punti successivi la «forma compiuta» a cui Moscati si lasciò condurre ed educare.

1. Essere chiamati all’esistenza ed essere chiamati a una missione dovrebbero per il cristiano diventare una sola cosa, come lo fu per Gesù, il cui «io» consisteva totalmente nel «lasciarsi mandare» dal Padre, nel fare totalmente la sua volontà. Spesso invece queste due «vocazioni» (all’esistenza e alla missione) restano due mondi separati che cercano faticosamente di restare almeno allacciati tra loro.
Moscati ebbe la grazia di sentire e vivere la vocazione di medico come totalmente espressiva del senso e dello scopo della sua esisten­za, ed essa ricoprì tutto il suo essere ed esistere.
Ancora diciassettenne, alla madre che gli prospettava le difficol­tà e i pericoli della professione medica rispondeva: «Che dite, mam­ma, io so no pronto a coricarmi nel letto stesso del malato!».

E la madre che lo conosceva bene aveva commentato, come per un presagio: «Per alleviare le sofferenze dei malati diventerà lui stes­so un martire!».

Le biografie di Moscati testimoniano concordemente che egli considerò la professione medica come una vocazione e una missione che dovevano «esaurirlo» anche fisicamente, perché soltanto così il progetto di Dio avrebbe potuto compiersi. E perciò egli accettava semplicemente e totalmente quell’essere avvolto e tirato da ogni par­te che a volte, con un umorismo non privo di sofferenza, egli chia­mava il «mastodontico groviglio di guai in cui mi trovo da mille parti ingrovigliato».
Confessava ad un amico: «Mi riduco a notte inoltrata per scri­vervi. Vi assicuro che non ho nemmeno il tempo di mettermi le mani nei capelli. Ospedale, laboratori, lezioni ufficiali, lezione mia di se­meiotica e di clinica, baraonda di malati gravi, impressionati, mi ten­gono tutto per loro e mi inibiscono per altre cose» (gennaio 1919).

E, per quanto disponibile fosse il professore, doveva lottare quo­tidianamente con un carattere nervoso, pronto a scattare e a diven­tare insofferente verso ogni contrattempo: ma sempre pronto a ri­prendersi, a lasciarsi «limare», «rifinire», quasi, dalle circostanze sempre più catturanti. Morì, improvvisamente, nella piena maturità, appena terminata una visita, senza nemmeno poter avere per sé un attimo di conforto e di aiuto.
È un giudizio su tutte quelle situazioni in cui i cristiani si ritrag­gono dal fare la volontà di Dio, dal lasciarsi «usare come servi inuti­li» proprio perché percepiscono la loro missione nella Chiesa e nel
mondo come qualcosa di «informe», di aggiunto quasi alla loro esi­stenza, alla loro persona, e perciò restano ultimamente incerti, no­stalgici di altre possibilità, dubbiosi della validità del loro stato (ver­gini che vorrebbero essere coniugati, coniugati che vorrebbero esse­re «diversamente» sposati o addirittura vergini, chierici che vorreb­bero essere laici e laici che vorrebbero essere chierici, professionisti che sognano una situazione a loro più confacente e dove potersi fi­nalmente esprimere, e molte altre cose simili): un giudizio su tutte quelle esistenze che non si versano totalmente sulla missione loro af­fidata, e su tutte le pretese «missioni» scelte come fuga dai propri di­sagi esistenziali.

2. Esistenza e missione del cristiano sono anzitutto affezione a Cristo, calda adesione personale a Lui come persona vivente (non co­me idea le o come «causa a cui rifarsi»). Soprattutto di ciò la condi­zione verginale è segno bruciante nel mondo.
Ogni amore per il prossimo deve essere riflesso di questa prima «prossimità» offerta da e a Cristo Signore. Per un cristiano l’amore dei prossimo o ha una radice «verginale» (nasce tutto dalla apparte­nenza personale a Cristo) o è solo un tentativo psicologico di rintrac­ciare Cristo, affaticando moralisticamente la propria affettività.
Moscati, a questa nostra epoca (per la quale la carità sociale sem­bra essere addirittura un’obiezione a Cristo), viene a ricordare che la carità cristiana ha un’origine e una identità esplicita: è la carità di Cristo, che deve struggere il cuore dei suo discepolo, come diceva san Paolo.
Nessuno, guardando la vita e le opere di Moscati, poteva dubita­re che egli amasse personalmente e dichiaratamente Cristo. A chi ri­fiutava il Signore Gesù, Moscati appariva come un maniaco da com­battere e da eliminare. Ma se uno «riconosceva» Cristo (anche timi­damente) e ancora lo «ricordava» (anche tra le nebbie di una fede un tempo posseduta), allora Moscati con le sue «opere di carità» glielo raffigurava in modo bruciante, persuasivo, convincente. E nessuno poteva sbagliarsi, nemmeno per un attimo, pensando che si trattasse di una fortunata naturale bontà dei professore.
L’impegno ascetico-caritativo era per Moscati il presupposto, la
carta di credito, il «titolo» che gli dava occasione di annuncio inte­grale a favore dei suo Signore Gesù: si staccava dai denaro per poter parlare di tutto senza ambiguità, si faceva tutto a tutti per poter in­dicare Colui che era «tutto», lasciava che gli «consumassero questa vita» per avere il diritto di parlare della vita eterna. Arrivava fino a chiedere al malato che invece dei soldi gli desse il regalo di accostarsi alla Eucaristia, di tornare alla fede perduta.

«Gli chiesi una volta perché avesse rinunciato all’onorario offer­togli da un ammalato facoltoso, che versava in gravissime condizioni e che era un gran peccatore, ed egli mi rispose: ‘Lo convertirò’ ».

Moscati ha insegnato con una evidenza abbagliante che — con­trariamente a quanto oggi si pensa e si insegna — l’amore dei prossi­mo è vero solo quando è tutto teso, da ogni direzione, a un esplicito amore di Cristo (Dio-fatto-prossimo).
L’impegno professionale-ascetico-caritativo o è per un laico il modo con cui egli «fonda» il suo annuncio integrale a favore di Cri­sto (dare tutto Cristo a tutti gli uomini), oppure perfino le sue opere buone verranno risucchiate via, consumate da coloro che ne appro­fittano per lasciarsi ancor più cullare nella loro spirituale pigrizia e indifferenza.
Se chi opera per Cristo pensa di poterlo fare anonimamente, tan­to più sarà lecito restare anonimo a chi riceve il frutto di questa stes­sa opera. Da ciò può derivare l’attuale paradosso di una Chiesa e di un laicato che sviluppano un grande potenziale di impegno profes­sionale e caritativo e del fatto che tuttavia la fede viene progressiva­mente meno proprio là dove i cristiani sembrano più vivere e ope­rare.
Secondo Moscati: bisogna compiere «opere e opere» di carità per potersi permettere di essere integri neii’annuncio di Cristo, e biso­gna essere integri nell’annuncio di Cristo perché le opere di carità non anneghino in una vaga filantropia di cui si serve anzitutto con scaltrezza proprio chi vuoi rassodare se stesso e il mondo nei rifiuto di Cristo.

3.  Quanto più la carità è veramente cristiana (nei senso in cui
l’abbiamo descritta) tanto più essa tende a unificare dall’interno la coscienza dell’uomo, manifestando così una forza onniavvolgente: fa emergere legami impensati, rivela possibilità quasi sconosciute, pro­duce energie a tutto campo. I diversi «piani» della realtà non vengo­no integristicamente negati, ma ha luogo una inattesa fluidità, per cui il naturale si versa «naturalmente» nel soprannaturale e il sopran­naturale «soprannaturalmente» si apre al naturale.
Nella vita di Moscati tale fluidità si manifesta in varie direzioni, alle quali possiamo solo accennare.

a. Dal punto di vista dell’arte medica possiamo dire che le sue ca­pacità professionali vennero incredibilmente potenziare. E ciò in due sensi. Da un lato sembrava che la fede (il modo cristiano di osser­vare il malato) acuisse le sue già notevolissime doti diagnostiche: da­va persino l’impressione di «indovinare», di «vedere» le malattie del corpo, di percepirle da segni impercettibili che stupivano i colleghi. Dall’altro lato tale intuizione penetrante scendeva a una tale profon­dità che egli diagnosticava spesso anchè le malattie dell’anima.
Egli stesso confessò: «È tale l’intuito chiaro che mi concede il Si­gnore che non mi sembra possibile trattenerlo, e non rare volte vedo anche le deformità delle loro anime».

Accadevano episodi che a volte spaventavano lui stesso. Un gior­no tornò a casa turbato e raccontò alla sorella: «Sai cosa mi è accadu­to oggi? E venuta da me una signora con la figlia. La signorina pote­va avere ventiquattro o venticinque anni. Guardandola le ho detto:
‘Signorina, lei non ha ancora fatto la prima Comunione!’. Da alcune lacrime mi sono accorto che la cosa era vera. Poi ho fissato la signora e le ho detto: “Signora, lei convive con un sacerdote apostata”. Sai, era tutto vero e non riesco a spiegarmi come ho fatto!».

La sorella dovette consolarlo e dirgli che si trattava certamente di un caso, come a volte ne accadono.
Sia per quanto riguarda la malattia fisica che per quanto riguarda la malattia spirituale, egli sembra dunque dotato di un di più (analo­go a quello che il Vangelo racconta di Cristo!). Ma occorre intender­ci bene: in Moscati questo di più non appariva tanto come qualcosa di miracolistico, di meccanicamente aggiunto alle normali capacità mediche: appariva invece come una sorta di miracolo di unificazio­ne. Per spiegare: era come se la sua persona, dopo aver percorso tut­to il campo della scienza (il cui studio era continuo e indefesso) e do­po aver percorso anche tutto il campo della maturazione spirituale che gli era possibile, si trovasse collocata nel punto di innesto di que­sto duplice itinerario: là dove il suo sguardo poteva ugualmente spa­ziare in ambedue le direzioni, e farne una sintesi.
A un certo punto della vita, in Moscati, scienza e fede mostraro­no non solo la loro non-contrarietà ma la loro identica struttura di carità: il loro essere aspetti diversi di quell’unica intelligenza di amo­re che ci ha assieme creati e redenti.
Quando si fu ben collocato nella «carità», Moscati si trovò ad es­sere sia un grande medico anche in forza della sua fede, sia un gran­de credente anche in forza della sua scienza.

Dal punto di vista del paziente l’unificazione operata dalla ca­rità fece percepire a Moscati il binomio malattia-guarigione come re­lativo a tutto l’essere umano, anticipando tutte le più recenti acqui­sizioni della scienza. Ha detto Giovanni Paolo ti nel discorso di ca­nonizzazione che egli fu «anticipatore e protagonista di quella uma­nizzazione della medicina avvertita oggi come condizione necessaria per una rinnovata attenzione e assistenza a chi soffre».
Certo, negli ultimi decenni, molti medici sono diventati sempre più perplessi sulle possibilità di curare un uomo come se fosse solo «una malattia» o un organo malfunzionante. Ci si è anche dedicati alla cura della psiche, sviluppandola purtroppo solo in forme paralle­le e per tentativi, «per scuole», che spesso trattano anche la psiche come una parte malata (da raggiungere spesso a costo di incredibili manipolazioni e amputazioni).
La «carità» di Moscati gli fece intravedere tale unità del paziente e nel paziente e lo rese duro nel rivendicare la dignità del malato.
Quando si parlò della clinicizzazione degli ospedali, voluta da Gentile, egli scrisse una lettera all’amico Benedetto Croce per prote­stare contro «i decreti che dispongono della carne umana come di mercanzia» e da cui gli «ammalati sono sbattuti come titoli in borsa».
Scrive in una recensione: «Il dolore va trattato non come un guizzo o una contrazione muscolare, ma come il grido di un’anima a cui un altro fratello, il medico, accorre con l’ardenza dell’amore, la carità».

Eppure anche qui bisogna fare un passo ulteriore: Moscati non era preoccupato solo dell’unità somatico-spirituale dell’uomo, e di una visione integralmente umana della malattia, ma ciò gli sembrava il minimo indispensabile per un ulteriore affondo sull’integrum del­l’uomo. La cura dell’unità psico-fisica doveva spingersi fino alle ulti­me profondità spirituali, fino all’ultima sofferenza dell’anima, fino all’ultima esigenza di felicità, con un deciso orientamento ultrater­reno.
Dal punto di vista della medicina il problema malattia-guarigio­ne doveva essere considerato percependo sia l’unità del «male» (fino al male-peccato), sia l’unità della salute (fino alla salute-salvezza), sia l’unità tra chi opera nei diversi campi (unità, non semplice distribu­zione dei ruoli), sia infine l’unità delle strutture in cui il bisogno di guarigione viene accolto e trattato.
Moscati non solo percepì la sua professione in stretta connessio­ne con quella del sacerdote, ma, nella situazione del suo tempo, ten­tò di coprire misericordiosamente e intelligentemente tutto lo spazio che conduceva fino al ministro del perdono di Dio e della vita so­prannaturale. Ciò che egli fece da solo, in una situazione e in un tempo in cui l’istituzione si disinteressava totalmente della profonda identità dei pazienti, può oggi essere riproposto a livello di progetto.

Alla lettera piena di gratitudine di un discepolo medico che lo la­sciava per un primo incarico, Moscati rispondeva lasciandogli in ere­dità questo ricordo: «Non la scienza ma la carità ha trasformato il mondo... Ho sempre vivo nel cuore il rammarico di sapervi lontano e solo mi conforta che abbiate conservato in voi qualcosa di me; non perché io valga nulla, ma per quel contenuto spirituale che mi sforzo di trattenere e di diffondere intorno. Io vi tengo presente, siatene sicuro. Vi bacio in Cristo!».
la vita di Moscati, lo definì Lumen ecclesiae, luce della Chiesa. Il Concilio Vaticano II, da lui voluto, avrebbe detto poi che il compito della Chiesa è «riflettere nel mondo quella Luce delle Genti (Lumen Gentium) che è Cristo».
Ebbene, questo la Chiesa potrà farlo solo se i suoi laici impare­ranno a far risplendere quotidianamente tale luce sul loro volto.
Mentre, il giovedì santo del 1927, il corteo funebre si snodava per le vie di Napoli, con un immenso seguito di docenti, di studenti e di umile gente, un vecchietto si avvicinò al tavolino posto nell’an­drone di casa Moscati e sul registro delle condoglianze scrisse con mano tremante: «Noi lo piangiamo perché il mondo ha perduto un santo, Napoli un esemplare di ogni virtù, e i malati poveri hanno perso tutto».
Forse adesso capiamo perché il cardinale Roncalli, quando lesse la vita di Moscati, lo definì Lumen ecclesiae, luce della Chiesa. Il Concilio Vaticano II, da lui voluto, avrebbe detto poi che il compito della Chiesa è «riflettere nel mondo quella Luce delle Genti (Lumen Gentium) che è Cristo».
Ebbene, questo la Chiesa potrà farlo solo se i suoi laici impare­ranno a far risplendere quotidianamente tale luce sul loro volto.
Mentre, il giovedì santo del 1927, il corteo funebre si snodava per le vie di Napoli, con un immenso seguito di docenti, di studenti e di umile gente, un vecchietto si avvicinò al tavolino posto nell’an­drone di casa Moscati e sul registro delle condoglianze scrisse con mano tremante: «Noi lo piangiamo perché il mondo ha perduto un santo, Napoli un esemplare di ogni virtù, e i malati poveri hanno perso tutto».


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