giovedì 22 gennaio 2015

Solitudine e comunione:in ogni vera amicizia e in ogni vero matrimonio si ritorna "al Principio" (P.Antonio Sicari)

«Tutto il problema della vita è dunque questo: come rompere la propria solitudine, come comunicare con altri», scriveva angosciato Cesare Pavese il 4 maggio 1939.
E sono innumerevoli gli uomini che potrebbero assentire.
A questo livello, però, la solitudine non è più soltanto quell’esperienza trascendentale che pone l’uomo in una vertiginosa distanza dalla creazione (là dove egli si sente attratto dall’Assoluto), ma è un’esperienza legata alla propria colpa originale (e/o attuale) e a tutte le lacerazioni storiche in cui siamo immersi.
Non è più soltanto la “solitudine buona” che viene prima della comunione e resiste in essa come un diamante inscalfibile, ma è anche la “solitudine amara” che viene dopo i mille tradimenti inferti alla comunione con Dio e con gli uomini.
È perciò una solitudine vissuta, a tratti, come angoscia e condanna.

L’esperienza dell’amicizia nelle sue innumerevoli sfumature e, soprattutto, quella dell’amicizia sponsale offrono continuamente agli uomini il metodo paziente per riconciliare tutta la complessità di cui abbiamo parlato: il gusto commovente della comunione realizzata; il persistere esigente di una propria irriducibile e buona solitudine; la coscienza delle colpe con cui avveleniamo la comunione e corrompiamo la solitudine; la speranza di essere sempre nuovamente accolti e nuovamente confermati nella nostra dignità.
In ogni vera amicizia e in ogni vero matrimonio (non solo in quello cristiano-sacramentale), è concesso alle creature umane un certo ritorno “al principio”, quando solitudine, comunione, peccato e un inizio di paziente salvezza furono per la prima volta esperimentate.
"Un buon matrimonio è quello in cui ognuno dei due nomina l'altro guardiano della propria solitudine, e gli mostra fiducia, la più grande possibile... Una volta che si accetta che anche fra gli esseri umani più vicini continua ad esistere una distanza infinita, può crescere una forma meravigliosa di vivere uno a fianco all'altro se si riesce ad amare quella distanza che permette ad ognuno di vedere nella totalità il profilo dell'altro stagliato contro un ampio cielo" (Rainer Maria Rilke).
Certo l’esperienza dell’amicizia cristiana e della famiglia cristiana dovrebbero inondare i credenti di “grazia”: esaltando e spingendo la solitudine di ciascuno verso la “santa verginità” propria di ogni creatura; impregnando la coniugalità di esperienze trinitarie (costruendo “persone in comunione” ricche di ogni fecondità; e riscattando la fatica del vivere e le inevitabili debolezze con un’amministrazione continuata di perdono e di eucaristia.
Le comunità ecclesiali dovrebbero congiuntamente risplendere per verginità (lo splendore dignitoso di tutte le “originali solitudini”), per comunionalità (la capacità di trasmettere amore personale attraversando tutta la densità della materia) e per sacramentalità (far divenire tutto segno e strumento di grazia salvifica).
Forse però il compito più urgente non è quello di sottolineare le divergenze sempre più marcate tra la visione cristiana della persona e della famiglia e la visione cosiddetta laica, che non comprende nemmeno più i dati (= doni) fondamentali che i cristiani ancora riconoscono (persona, comunione, verginità) e ancor meno comprende le rispettive connotazioni (maschilità/femminilità, sponsalità, irriducibile dignità).
Su questo confronto i cristiani si fanno sempre più timidi o arroccati e i laicisti si fanno sempre più ottusi e scanzonati.
Tra i credenti, solo i mistici si trovano a loro agio.
E tra i non credenti forse solo i poeti e gli artisti (quando si sentono un po’ sorpresi dalla gioia o trascinati da una qualche forma di innamoramento) riescono ancora, a tratti, a intuire e descrivere la bellezza del disegno originario di Dio.
Quando ciò accade – lo sappiano o non lo sappiano – essi si trovano collocati di schianto sullo scenario del primo Paradiso, dove il Creatore è intento (non lo è sempre?) a disegnare la sua Creazione (e sappiamo che il Padre ha sempre in mente l’immagine adorabile di suo Figlio Gesù e ha sempre in cuore l’Amore che li lega entrambi e che continuamente respira sulla creazione).

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