mercoledì 28 gennaio 2015

Fabrice Hadjadj (Video e alcuni articoli del filosofo cattolico)





CHI È
È considerato l’intellettuale cristiano francese d’avanguardia. Conteso da diversi editori (sia in patria che all’estero), Fabrice Hadjadj, nonostante la giovane età (è nato nel 1971: sposato, in attesa del sesto figlio), ha scelto il “basso profilo” di Toulon, e non la notorietà di Parigi, per la sua carriera di filosofo: qui insegna filosofia in un liceo e nel seminario diocesano. La sua vera aspirazione era diventare romanziere (all’attivo ha alcuni lavori con lo scrittore nichilista Michel Houellebecq); in seguito si è scoperto filosofo, autore teatrale (a Milano è in corso di rappresentazione il suo Giobbe) ed esperto d’arte. Convertito al cristianesimo in età adulta (provene da una famiglia atea di sinistra, di origine ebraica), Hadjadj ha pubblicato diversi saggi decisamente controcorrente in cui coniuga la sua profonda conoscenza filosofica con l’esperienza e la riflessione cristiana. Vanno ricordati Farcela con la morte (Cittadella), La fede dei demoni (Marietti), La mistica della carne (Medusa), La terra strada del cielo (Lindau). Nel 2010 ha conseguito il prestigioso “Grand Prix de la littérature religiouse” di Francia per il suo testo sull’ateismo, mentre nel 2006 era stata la volta del “Grand Prix catholique de littérature” per quello dedicato alla morte.




Nessuna posizione al mondo è più unitaria di quella della Chiesa”

La morale della Chiesa non è contro il sesso, è la liberazione sessuale che è contro il sesso, perché lo riduce a un atto di consumo. La Chiesa è per la pienezza della sessualità.
La Chiesa insiste sull’unità di carne e spirito, di anima e corpo. Nessuna posizione al mondo è più unitaria di quella della Chiesa. Essa dice: siete liberi di fare quel che volete, ma vi ricordiamo soltanto che se andate in quella direzione, vi sarà una rottura della vostra unità personale, questa rottura noi la chiamiamo peccato”.

Fabrice Hadjadj
 







Alcuni rimpiangono la prima volta che hanno abbracciato una ragazza, senza conoscere l’emozione di abbracciare per l’ennesima volta la propria moglie”.

Hadjadj: ho scoperto Dio. E al fratello ateo ora dico…




Prima della mia conversione, devo confessarlo, odiavo questa parola. Quando qualcuno diceva «Dio», mi sembrava che mettesse fine a qualsiasi discussione. Aveva introdotto con l’imbroglio un altro jolly nel mazzo di carte.
Era un abracadabra, una formula magica e mi verrebbe da dire addirittura una «soluzione finale», con tutto ciò che può comportare di terrorizzante un’espressione del genere. Una soluzione finale all’interno di una discussione che, d’un tratto, veniva soffocata da questa parola grossa e massiccia. La mia conversione consistette dapprima in una conversione di vocabolario.
All’epoca del mio ateismo ero obbligato a confessare un mistero dell’esistenza. Pensavo tuttavia che la parola «Dio» non avesse nulla a che vedere con tale mistero, che fosse addirittura un modo per evitarlo.
Avevo la pretesa di spiegarne l’esistenza nel lessico, sforzandomi di svicolare così: negazione della morte, volontà di potenza, fuga nell’aldilà, sublimazione nevrotica del «papà/ mamma, aiuto!»…
Cos’è accaduto oggi? Sono stato corretto riguardo a tale controsenso. Questa parola non suona più ai miei orecchi come un “tappabuchi”, ma come un “apri-abisso”. È probabile che alcuni la usino come “tappabuchi” (credenti o meno, d’altronde). Non la capiscono affatto, allora. Non ne sentono, per così dire, la musica. Perché il significante «Dio» non discende da un desiderio di soluzione finale: viene dal riconoscimento di un’assenza irrecuperabile. Non sorge tanto come risposta quanto come chiamata. Dà il nome all’evidenza di ciò che mi sfugge, all’esigenza di ciò che mi supera.
Lo ricordo spesso ai seminaristi: «Quando siete in missione di evangelizzazione e una persona vi dichiara: “Io non credo in Dio”, state attenti, non saltategli addosso dicendo: “Ma sì, bisogna credere in Dio!”, perché magari non ci credete neppure voi al “Dio” di cui sta parlando lui! Chiedetegli prima cosa intende con quella parola. E chiedetevi se vi siete mai accorti della vertigine che porta con sé». (…)
Non si tratta di parlare di Dio amando il proprio prossimo, come se potessimo in verità separare l’uno dall’altro (separare la parola dall’amore e Dio dal prossimo). Parlare di Dio vuol dire anche amare, in maniera indissociabile, colui a cui ne parliamo, perché vuol dire riverberare su di lui la Parola che gli dà l’esistenza e che quindi desidera infinitamente che lui esista. Capite la difficoltà? Sono missionario e un bel giorno mi trovo davanti a qualcuno che mi è ostile. Vengo ad annunciargli la Parola di Dio, ma visto che tale Parola mi dice che Dio è provvidenza, mi tocca ammettere che, questo tipaccio, me lo piazza in mezzo alla strada Dio stesso. Di conseguenza, devo innanzi tutto onorarlo questo tipaccio, devo riconoscere che, anche se mi sta parecchio antipatico, anche se è tremendamente contrario ai cristiani, come persona è eternamente voluto dall’alto e ha sempre qualcosa da insegnarmi.
Basta adottare questa giusta prospettiva e ogni fanfarone si rivela essere parola di Dio. Certo, non tanto per via delle intenzioni ostili, quanto per la sua presenza. È la Parola di Dio a conferirgli l’essere. È l’amore di Dio che lo trae fuori dal nulla. Magari l’ignora, ma se sono un apostolo del Creatore, io non posso ignorarlo. Devo andare oltre l’antipatia. Meravigliarmi prima di tutto del fatto che esiste. E non è una strategia di comunicazione, in questo caso: non mi sforzo di essere gentile, di rendermi affabile, di far finta di stare attento per rivendere la mia mercanzia.
In gioco qui c’è la verità della mia identità cristiana. Se non sono capace di meravigliarmi sinceramente, di fronte all’esistenza, per esempio di Michel Onfray (prendo un ateo in Francia, ma avrei potuto scegliere allo stesso modo un fondamentalista in Iran), non sono cristiano, perché Michel Onfray, anche se con la bocca pronuncia idiozie sulla Bibbia, con il suo essere rimane ugualmente una parola di Dio, certo imbavagliata, ma comunque divina nella sua apparizione: «Ben Zoma diceva: “Chi è il sapiente?”. Colui che trova qualcosa da imparare da ogni uomo».
Dio perciò è già presente nel più anticristiano degli uomini, forse non con la presenza di grazia, ma per lo meno con la presenza di creazione, con la presenza d’immensità, tanto che, nel momento in cui parlo di Dio con il mio nemico, devo aver coscienza che Dio è impegnato interamente a creare il mio nemico con amore. Una posizione decisamente destabilizzante, devo dire: mi tocca parlargli di Dio lasciandomi prima interpellare da lui, rifiutarne l’ignoranza accogliendone la presenza, contestarne l’inimicizia attestandone la bontà originaria. Ed è proprio lo stupore davanti alla sua bontà originaria, al di là della nostra antipatia iniziale, che può permettermi di dominare fino al cuore del nemico.
Fabrice Hadjadj
[Fonte: Avvenire, 3.05.13]

Hadjadj: «L’embrione è un essere umano. Gli scienziati che lo negano sono apprendisti stregoni»




Il filosofo francese attacca la legge che autorizza la distruzione degli embrioni a fini scientifici: «Siamo già ben aldilà del “Mondo nuovo” di Huxley»

«Nessuno scienziato può negare l’evidenza che l’embrione [umano] sia un essere umano o che sopprimerlo sia un omicidio. Fare dell’essere umano un materiale disponibile è il colmo dello sfruttamento». Così il filosofo francese Fabrice Hadjadj, in un’intervista al Le Figaro, ha commentato alla vigilia della sua approvazione la legge che in Francia ha aperto alla sperimentazione sugli embrioni, che implica la loro distruzione.
OLTRE IL “MIGLIORE DEI MONDI”. L’«evidenza» a cui si richiama Hadjadj non è stata riconosciuta dal Parlamento francese, che ha negato all’embrione lo statuto di «persona». Secondo il filosofo questo è l’unico modo per stare davanti a «una situazione insostenibile, davanti alla quale la nostra coscienza è disorientata: [ci sono] 50 mila esseri umani congelati, che verranno usati come reagenti nei laboratori farmaceutici. È qualcosa di inimmaginabile. Bisognerebbe ammettere che siamo già ben aldilà de Il mondo nuovo di Aldous Huxley».
«SCIENZIATI APPRENDISTI STREGONI». Hadjadj si scaglia anche contro le sottigliezze di quegli scienziati che considerano gli embrioni delle «persone in divenire» e che diventeranno tali solo se i genitori lo vorranno: «Gli scienziati che affermano queste cose sono in realtà adepti della magia nera. Abracadabra! Se io voglio che l’embrione sia una persona, lo è. Se non rientra nel mio progetto, pouf!, la persona sparisce! Siamo davvero nel regno degli apprendisti stregoni. Ma questo modo di vedere, per quanto faccia pensare alla magia, è tipico della tecnocrazia. Il suo principio è che la volontà ha il primato sull’essere, e che tutti i dati naturali, il mio corpo compreso, non sono altro che materiale da manipolare a seconda dei miei capricci. (…) Siamo entrati in un’era di manipolazione radicale (fino alla radice) della vita umana. Con questa legge (…) abbiamo deciso che la riduzione dell’umano a puro materiale» da manipolare «è positiva».
«IO RETROGRADO?». E quando l’intervistatore gli fa notare che queste opinioni potrebbero essere definite retrograde, si arrabbia: «Ma da dove viene questa retorica da “Grande balzo in avanti”? È così che Mao ha causato 30 milioni di morti. È bene fare marcia indietro quando si è sull’orlo del precipizio. Inoltre, ciò che è davvero retrogrado, è non proseguire sulla strada aperta dal premio Nobel della medicina, il professor Yamanaka», che ha scoperto come far “ringiovanire” le cellule staminali adulte fino allo stato embrionale di pluripotenza.
OSCURANTISMO SCIENTISTA. Il filosofo francese dà anche una stoccata a René Frydman, che con il biologo Jacques Testart è considerato il “padre” del primo bebè nato in provetta in Francia nel 1982. Proprio al Le Figaro aveva dichiarato che chiunque si oppone alla manipolazione dell’embrione è influenzato dalla Chiesa cattolica. Hadjadj gli risponde così: «[Frydman] si lascia presentare come il “padre del primo bebè in provetta”. Ma dov’è finito Jacques Testart? Perché non si parla più di lui come pioniere della fecondazione in vitro? Precisamente perché, senza essere cattolico, Testart ha denunciato quelli che “applaudono religiosamente a tutte le produzioni dei laboratori”. Lui avrebbe molto da dire sull’oscurantismo scientista e i suoi fanatici odierni».

[Fonte: Tempi.it, 18.07.13]

“La famiglia è il luogo della trasmissione della vita”




di Fabrice Hadjadj *

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“La famiglia è il luogo della trasmissione della vita e dell’essere”, ha detto lo studioso che dirige l’Istituto europeo di studi antropologici di Friburgo. Per questo, secondo Hadjadj, “la Chiesa, tempio dello spirito, difende la carne, diventa testimone di Dio ma anche testimone dei sessi” e se ieri “si pensava che il sesso fosse il nemico della Chiesa, oggi solo la Chiesa può salvare la sessualità, spirituale e carnale”.
Secondo Hadjadj, la crisi della famiglia che si è aperta in Francia dopo il riconoscimento del matrimoni fra persone dello stesso sesso – definito dal filosofo un “cercle carré” ovvero un “cerchio quadrato” per sottolinearne il non senso – “è stata una grazia perché si è resa necessaria una discussione sulla sua evidenza” e, citando S.Agostino, ha ricordato il valore delle eresie “che permettono di esplicitare i dogmi”.
Puntare sulla “perfezione” familiare può rivelarsi appunto fallace: “Quando Gesù parla della famiglia è per dire che ci avrebbe portato la spada”, ha ricordato Hadjadi, “e ciò è stupefacente, se si guarda ai settimanali cristiani, dove le famiglie sono un modello”. D’altra parte, ha ricordato Hadjadj, una delle prime immagini della famiglia di Nazareth vede Maria e Giuseppe cercare disperatamente il piccolo Gesù smarrito nel grande tempio di Gerusalemme. “E la parole usate dalla Madonna”, ha sottolineato lo studioso, “furono: ‘Figlio, perché ci hai fatto questo? Ti abbiamo cercato nell’angoscia'”. Cercare nell’angoscia, insomma, appartiene all’essenza dell’essere genitori, “perché ci sarà sempre una dimensione drammatica: la famiglia è il luogo dove le cose non funzionano”. La famiglia infatti “non funziona”, ha ricordato Hadjadj “perché invece è un luogo di vita, di incontro, e come tale di prova”. Non solo, “la famiglia è il luogo della prima miseria, perché i genitori, che non hanno mai imparato a esserlo, si scoprono autorità senza competenza, e quindi è il luogo della prima misericordia verso se stessi”.
Quanto al matrimonio gay, il filosofo ha spiegato che è figlio del passaggio dal concetto di città, proprio della polis aristotelica, a quello di società, mutuato dall’economia. “E in una società si stipulano contratti, non importa il sesso dei contraenti”, ha spiegato. Il movimento che ha portato all’unione fra persone dello stesso sesso mostra però, secondo lo studioso, numerose contraddizioni: “Quelli che negli anni ’70 erano contro la famiglia”, ha osservato, “sono diventati a favore della famiglia ‘per tutti’, come si dice in Francia”. Segno che non si trattava di una costruzione religiosa e innaturale come si sosteneva. “La postmodernità aveva pensato di sbarazzarsi della famiglia”, ha detto Hadjadj, e non riuscendovi la assimila. E non è l’unica contraddizione: nella famiglia pensata in modo “contrattuale” si contemplano due uomini e due due donne “ma allora”, si è chiesto, “perché fermarsi? Perché non immaginarla a quattro o cinque? Fermarsi a due, significa che siamo sotto la fascinazione del dato naturale”.




“La posizione dell’uomo che prega è la posizione dell’uomo per eccellenza”. Hadjadj racconta la sua “conversione”


“Tutti gli uomini sono attirati da Cristo. Io mi fido e sapete perché? Perché ero aspramente anticlericale, ma dobbiamo avere fiducia che il cuore del non cristiano è attirato da Cristo”
Voi sapete che Tempi ha un debole per Fabrice Hadjadj. Recentemente abbiamo pubblicato una sua intervista (Elogio della famiglia selvaggia, anarchica e preistorica) e qui di seguito ve ne proponiamo un’altra tratta da Zenit, convinti che valga sempre la pena leggere il punto di vista originale di questo interessante filosofo.
“Il nostro mondo è sempre più caratterizzato dalla disincarnazione. Siamo nell’era di in vitro veritas, sia che si tratti degli schermi che del vetro delle provette. Il padre è sostituito dall’esperto (e questo accade anche ai vescovi che rinunciano troppo sovente alla paternità in ragione di una sola posizione di superiorità gerarchica); la madre è progressivamente rimpiazzata dalla matrice elettronica. Vi diranno che ormai una coppia dello stesso sesso può avere figli allo stesso modo in cui li hanno un uomo e una donna. Anzi, vi diranno che possono averli molto meglio che un uomo con una donna, perché questi si consegnano alla procreazione attraverso l’oscurità rischiosa di un abbraccio e di una gravidanza, mentre una coppia dello stesso sesso è più responsabile, più etica, perché ricorre agli ingegneri per fabbricare un bimbo senza difetti, con un codice genetico verificato, molto più adatto al mondo che lo circonda. Ciò che bolle nei nostri laboratori è una vera contro-annunciazione: non si tratta più di accogliere il mistero della vita nell’oscurità di un grembo ma di ricostituirla nella trasparenza di una provetta”.
È la descrizione fatta dal filosofo Fabrice Hadjadj, nato da famiglia di religione ebraica, un passato da nichilista e anticlericale, attualmente sposato, padre di sei figli, insegnante di lettere e filosofia e anche drammaturgo. Dalla sua conversione ha preso il via la sua opera filosofica e letteraria. Hadjadj sostiene che all’interno della Chiesa sia avvenuta la massima comprensione e valorizzazione del corpo e della sessualità e pensa che la morte abbia la sua dignità. Tra i suoi numerosi libri vi sono Mistica della carne. La profondità dei sessi (Milano, Medusa, 2009), e Farcela con la morte. Anti-metodo per vivere, edito da Cittadella, che ha vinto il Gran Premio della letteratura cattolica nel 2006.
In occasione del terzo Congresso Mondiale dei movimenti ecclesiali e delle nuove comunità, organizzato a Roma dal Pontificio Consiglio per i Laici, di cui il filosofo francese è membro, in risposta alla chiamata alla conversione missionaria che papa Francesco ha rivolto nell’Evangelium Gaudium, Hadjadj ha risposto per Zenit ad alcune domande.
Qual è la storia della sua conversione dall’ebraismo al cristianesimo?Potrei raccontarvi una lunga storia… Dio ci converte con la sua intera creazione. La conversione è semplicemente una presa di coscienza, perché la realtà è sempre la realtà. Quando si è convertiti, inoltre, non si è arrivati, il battesimo è un punto di partenza, potrei sempre diventare peggiore di quello che sono stato prima: continuo ad avere i miei peccati, quindi occorre sempre fare attenzione al discorso della conversione. In realtà non è vero che mi sono convertito dall’ebraismo al cristianesimo, perché non ero religioso per nulla: venivo da una famiglia ebrea sì, ma piuttosto di sinistra, marxista, a casa non avevamo nessuna Bibbia, ma solo opere di Marx, Hegel, Gramsci; io personalmente mi avvicinai molto presto a Nietzsche e ad autori atei ma, curiosamente, è attraverso degli autori anticristiani che ho scoperto il cristianesimo e, curiosamente, è proprio da cristiano che ho scoperto in maniera vera il mio essere ebreo. Avevo la sensazione che la grandezza dell’uomo fosse legata alla sua vulnerabilità e che non si sviluppa con una sorta di potere orizzontale ma attraverso un grido verticale, un grido verso il cielo, come nella tragedia greca. Lì è evidente che la dignità tragica dell’uomo sta nel fatto che si rivolge ad un Dio e interpella il cielo. Inoltre ero attirato intellettualmente al mistero della croce. Un giorno mio padre si ammalò gravemente. Stava per morire e mia madre mi chiamò. Ero impotente davanti a quella situazione ed io entrai in una chiesa, dove pregai la Madonna: era una Madonna circondata da tanti ex-voto, e proprio due settimane prima, entrando nella stessa chiesa con un mio amico, avevo preso in giro questi ex voto: ‘grazie di qua, grazie di là… ridicolo!’. Mi ero fatto beffe davanti a quell’immagine. Ma la sera in cui mio padre stava male andai da questa Madonnina, e in quel momento non accadde nulla di straordinario, le cose straordinarie sono sempre le più semplici: ebbi la sensazione di essere al mio posto e scoprii che la posizione dell’uomo che prega è la posizione dell’uomo per eccellenza; a partire da quel momento ebbi la certezza della verità della preghiera.
Perché l’adesione al cristianesimo è qualcosa di diverso dall’adesione ad un partito o a un’idea politica?
Siamo passati da un’epoca di estremismi ideologici a un periodo in cui tutte le ideologie sono morte, un periodo di uniformazione tecnologica: è il momento in cui si prende la diversità del reale, la molteplicità delle cose, anche la biodiversità e la si manipola, la si frantuma. La missione della Chiesa non ha nulla a che vedere con un processo di uniformazione, perché è la stessa missione del Creatore: è il Creatore e il Redentore di tutte le cose, quindi non vuole schiacciare la singolarità delle cose con l’uniformità, ricondurle a un idea, ma permettere di essere pienamente quelle che sono, per come sono create e salvate, nella loro differenza. Il fondamento della fede cristiana è che l’unità è un’unità di comunione, ma la comunione non è una fusione. La comunione è comunione dell’uno con l’altro, e l’altro rimane un altro, non viene assorbito né diminuito. Questo si manifesta allo stesso modo nel mistero della Trinità: c’è un solo Dio, una sola natura divina, ma allo stesso tempo ci sono tre persone, e queste persone, proprio perché sono tre, sono persone eternamente differenti. Noi pensiamo all’unità di Dio come un’unità che porta in sé la diversità eterna. Questo ci invita a considerare la missione della Chiesa non più come propaganda ideologica che riduce all’uniformità, ma come ospitalità che permette a ciascun essere di essere riconosciuto pienamente se stesso.
Sia Benedetto XVI che papa Francesco hanno detto che l’evangelizzazione non cresce per proselitismo ma per attrazione: cosa significa questa espressione e quali sono, secondo lei, i pericoli del proselitismo? Possono sembrare solo due modi di dire lo stesso concetto: il proselitismo e l’attrazione, in opposizione a uscire da sé stessi. Attirare a se stessi o uscire da sé stessi?
Vanno fatti funzionare entrambi, perché il rapporto tra l’esterno e l’interno nella missione non è quella di dire ‘siamo una setta, noi abbiamo la verità e usciamo per portare dentro gente che è completamente fuori’: il mistero consiste proprio nel fatto che colui che è fuori dalla Chiesa, è allo stesso tempo creato per colui che è dentro la Chiesa, non vi è nulla di assolutamente fuori dalla Chiesa; le cose esistono, e non sono fuori dalla Chiesa, ma è la Chiesa che è creata dal Creatore. La missione per noi non è quella del proselitismo per cui bisogna incontrare qualcuno e ridurlo alle nostre stesse idee, ma è allo stesso tempo un uscire e un attrarre. Un’uscita perché andiamo verso l’altro, ma un’attrazione perché sentiamo, con il suo cuore una certa risonanza: questo è importante per i cristiani, credere alle parole di Gesù: ‘attirerò a me tutti gli uomini della terra’. È vero, tutti gli uomini sono attirati da Cristo, occorre fidarsi di questa parola qui! Io mi fido e sapete perché? Perché ero l’uomo più lontano da Cristo, ero quello la cui conversione era la più improbabile, ero aspramente anticlericale. Dobbiamo avere fiducia che il cuore del non cristiano, il cuore del nemico, il cuore del persecutore, è attirato da Cristo.

Elogio della famiglia selvaggia, anarchica e preistorica (se basta l’amore, per allevare i bambini vanno bene gli orfanotrofi)

novembre 10, 2014 Rodolfo Casadei
Grande intervista a Fabrice Hadjadj. Che qui espone le sue tesi “ultrasessiste” sull’unione fra l’uomo e la donna, il senso divino della nascita, l’essere padri, madri e figli
Il secondo tempo del Sinodo straordinario sulla famiglia si giocherà fra il 4 e il 25 ottobre dell’anno prossimo, quando l’argomento sarà ripreso dal Sinodo ordinario sotto il titolo “La vocazione e la missione della famiglia nella Chiesa e nel mondo contemporaneo”. E visto come è andata la prima metà della partita, sarà meglio allenarsi di più e prepararsi a dare ciascuno il proprio contributo al gioco di squadra. Molto utile a questo proposito può rivelarsi la lettura approfondita di Qu’est-ce qu’une famille?, l’ultimo libro scritto da Fabrice Hadjadj (foto a destra, Meeting Rimini), il pensatore cattolico francese direttore della Fondazione Anthropos a Losanna.
Autore sempre geniale, sorprendente e provocatorio, come anche stavolta si evince sin dal sottotitolo, che suona così: suivi de La Transcendance en culottes et autres propos ultra-sexistes. Cioè “risultato de La Trascendenza nelle mutande e altre proposizioni ultrasessiste”. La famiglia per Hadjadj è a livello umano quello che a livello cosmico è l’acqua per Talete o l’aria per Anassimandro: il principio anteriore a tutto il resto, il fondamento che non può essere spiegato proprio perché è un fondamento. Solo se ne può prendere atto, constatando che a dargli forma è la differenza sessuale che si manifesta come attrazione fra l’uomo e la donna. La famiglia è anzitutto natura, ma sempre ordinata e presa in mano dalla cultura. Perché il nascere, proprio di ogni forma naturale, presso gli umani è sempre circondato da un “far nascere”. E dal far nascere della levatrice alla maieutica di Socrate (non a caso figlio di una levatrice), che aiuta a far nascere la verità che è dentro ad ogni uomo, il passo è breve e necessario.
Nel libro, di cui si attende presto una traduzione in lingua italiana, Hadjadj individua principalmente tre nemici della famiglia nelle società occidentali: le ultime tecnologie elettroniche, la trasformazione della procreazione in produzione ingegneristica di esseri umani, e le derive fallocentriche (proprio così) della maggior parte dei femminismi odierni. Su questi argomenti Tempi lo ha intervistato.
Il suo libro è apparso alla vigilia del Sinodo dei vescovi sulla famiglia. Le pare che i lavori e il documento finale del Sinodo riflettano alcune delle sue preoccupazioni?
Il problema di un Sinodo è che deve parlare per la Chiesa universale, mentre le situazioni che la famiglia vive possono essere molto differenti da un paese all’altro, addirittura radicalmente opposte. Per quello che mi riguarda, si tratta di pensare quello che succede alla famiglia nelle società post-industriali, contrassegnate dall’economia liberale. La Relatio Synodi, nella sua diagnosi si accontenta di evocare una volta di più l’«individualismo» e l’«edonismo», mentre i dibattiti si sono cristallizzati attorno alla questione dei «divorziati risposati» o alla benedizione delle persone omosessuali. In questo modo mi sembra si manchi completamente ciò che è assolutamente proprio della nostra epoca, intendo dire la rivoluzione antropologica che si sta operando: il passaggio dalla famiglia all’azienda, e dalla nascita alla fabbricazione – o se preferite dal concepimento oscuro nel ventre di una madre, al concepimento trasparente nello spirito dell’ingegnere… La famiglia è attaccata sul piano ideologico fin dagli inizi del cristianesimo. Per esempio dagli gnostici. Ma oggi l’attacco è più radicale: esso non proviene tanto dall’ideologia, quanto dal dispositivo tecnologico. Non è più questione di teoria, ma di pratica, di mezzi efficaci per produrre al di fuori dei rapporti sessuali degli individui più adatti, più performanti.
Lei oppone la tavola in legno, attorno alla quale si riunisce la famiglia, al tablet elettronico, che ne separa e isola i membri, e la sua conclusione è che la tecnologia ha fatto collassare la famiglia e che assistiamo alla sua «distruzione tecnologica». Siamo davanti al più grande nemico della famiglia?
Qual è il luogo dove si tesse il tessuto familiare? Qual è il luogo dove le generazioni si incontrano, conversano, talvolta litigano e tuttavia, attraverso l’atto molto primitivo di mangiare insieme, continuano a condividere e ad essere in comunione? Questo luogo è tradizionalmente la tavola. Oggi invece sempre di più ciascuno mangia davanti alla porta del frigorifero per tornare più rapidamente al proprio schermo individuale. Non si tratta nemmeno più di individualismo, ma di «dividualismo», perché su quello schermo ciascuno apre più finestre e si divide, si frammenta, si disperde, perde il suo volto per diventare una moltitudine di «profili», perde la sua filiazione per avere un «prefisso». La tavola implica il raggrupparsi, entro una trasmissione genealogica e carnale. Il tablet implica la disgregazione, entro un divertimento tecnologico e disincarnato. D’altra parte l’innovazione tecnologica fa sì che ciò che è più recente sia migliore di ciò che è antico, e dunque distrugge il carattere venerabile di ciò che è antico e dell’esperienza. Se la tavola scompare, è anche perché l’adolescente diventa capofamiglia: è lui che sa maneggiare meglio gli ultimi gadget elettronici, e né il nonno né il papà hanno niente da insegnargli.
Lei scrive, molto provocatoriamente, che se davvero pensiamo che tutto ciò di cui hanno bisogno i figli siano l’amore e l’educazione, allora non soltanto una coppia di persone dello stesso sesso può assolvere alla bisogna, ma pure un orfanotrofio di qualità. Se l’essenziale sono l’amore e l’educazione, non è detto che una famiglia sia necessariamente il posto migliore per un bambino. Allora perché la famiglia padre-madre merita di essere privilegiata?
È la questione posta nel Mondo nuovo di Aldous Huxley: se avete un figlio per la via sessuale, è semplicemente perché siete andati a letto con una donna. Ciò non offre garanzie sulle vostre qualità riproduttive né sulle vostre competenze di educatore. Ecco perché sarebbe meglio, per il benessere del nuovo essere creato, che sia messo a punto dentro a un’incubatrice ed educato da degli specialisti. Questa argomentazione è molto forte. Fino a quando i cristiani continueranno a definire la famiglia come il luogo dell’educazione e dell’amore, essi non la contraddiranno, daranno anzi delle armi ai loro avversari, che potranno concludere che due uomini capaci di affetto e specializzati in pedagogia sono molto più adatti di un padre e di una madre. Ma il problema è che è ancora il primato del tecnologico sul genealogico che presiede a questa idea e ci spinge a sostituire la madre con la matrice e il padre con l’esperto.
Dietro a tutto questo c’è l’errore di cercare il bene del bambino e di non considerare più il suo essere. Ora, l’essere del bambino è di essere il figlio o la figlia di un uomo e di una donna, attraverso l’unione sessuale. Attraverso questa unione, il bambino arriva come un sovrappiù dell’amore: non è il prodotto di un fantasma né il risultato di un progetto, ma un’altra persona che sorge, singolare, incalcolabile, che supera i nostri piani. Quanto al padre, dal semplice fatto che ha trasmesso la vita riceve un’autorità senza competenza, e ciò è molto meglio di qualunque competenza professionale. Perché il padre è anzitutto là per manifestare al bambino il fatto che esistere è cosa buona, mentre gli esperti sono là per mostrare che è cosa buona riuscire. E poi la sua autorità senza competenza lo spinge a riconoscere davanti al bambino che lui non è il Padre assoluto, e dunque a rivolgersi insieme al suo bambino verso questo Padre dal quale ogni paternità trae il suo nome.
L’altra causa di distruzione della famiglia che lei cita è il rifiuto della nascita come nascita, cioè come qualcosa di naturale e imprevisto. Chi è favorevole alla tecnologizzazione della nascita dice che bisogna vigilare per un’utilizzazione delle biotecnologie vantaggiosa per il bambino che deve nascere, ma che comunque queste tecniche sono buone. Che cosa risponderebbe loro?
Se le biotecnologie vengono utilizzate per accompagnare o restaurare una fertilità naturale, sono favorevole ad esse: è il senso stesso della medicina. Ma se consistono nel farci entrare in una produzione artificiale, non si tratta più di medicina, ma di ingegneria. Quel che allora succede, è che il bambino diventa un diritto che viene rivendicato, e non più un dono di cui ci si sente indegni. A partire da ciò, voi potete immaginare le influenze che subirà. Ma la cosa più grave sta in un altro fatto, in quella che chiamerei la confusione fra novità e innovazione. Se il nuovo nato rinnova il mondo, è perché egli in qualche modo viene fuori preistorico: non ci sono differenze fondamentali fra il bebè dell’italiano di oggi e quello dell’uomo delle caverne. È sempre un piccolo primitivo, un piccolo selvaggio che sbarca nella famiglia, e che porta con sé un inizio assoluto, la promessa rinnovata dell’aurora. Se in futuro la nascita sarà misurata sul metro dell’innovazione, se si fabbricheranno principalmente dei bebè transumani, essi saranno vecchi già prima di nascere, perché riproporranno la logica del progresso e quindi anche della fatale obsolescenza degli oggetti tecnici. Corrisponderanno agli obiettivi di chi li commissiona, alle attese della loro società. Ci ritroviamo di fronte a un’inversione delle formule del Credo: si vuole un essere che sia «nato dal secolo prima di tutti i padri, creato e non generato».
Lei scrive: «Grazie alla tecnologia, la dominazione fallica è assicurata principalmente da donne isteriche prodotto di uomini castrati». Cosa intendete dire?
Il proprio del femminile, nella maternità, è di accogliere dentro di sé un processo oscuro, quello della vita che si dona da sé. Creare degli uteri artificiali può apparire come un’emancipazione della donna, ma in realtà è una confisca dei poteri che le sono più propri. Da una parte per far sì che la donna, non essendo più madre, diventi un’impiegata o una padrona (come se fosse una liberazione); dall’altra perché il processo vitale oscuro diventi una procedura tecnica trasparente, quella di un lavoro esterno e controllato, che è ciò a cui si limita l’operazione dell’uomo, che non ha un utero e fabbrica con le proprie mani. Ed eccoci di fronte al paradosso della maggior parte dei femminismi: essi non sono che un machismo della donna, un rivendicare l’eguaglianza ma sulla scala dei valori maschili, un volere una promozione in pieno accordo con la visione fallica del mondo. Perché la fecondazione e la gestazione in vitro sono quanto di più prossimo ci sia a un dominio fallico sulla fecondità: non avere più bisogno del femminile, fare entrare la procreazione nel gioco della fabbricazione, della trasparenza e della concorrenza. Come ho già parlato di un’inversione del Credo, potrei parlare in questo caso di una Contro-Annunciazione. Nell’Annunciazione evangelica, Maria accetta una gravidanza che la supera due volte, dal punto di vista naturale e da quello sovrannaturale. Nella Contro-Annunciazione tecnologica, la donna rifiuta ogni gravidanza, ed esige che la procreazione sia una pianificazione integrale, che non la supera più, ma s’inserisce nel suo progetto di carriera.
Lei è d’accordo con Chesterton che la famiglia è «l’istituzione anarchica per eccellenza». Che cosa significa? La famiglia ancora oggi è accusata di autoritarismo, o di essere un residuo dell’epoca del potere patriarcale.
La famiglia è un’istituzione anarchica nel senso che è anteriore allo Stato, al diritto e al mercato. Dipende dalla natura prima di essere ordinata dalla cultura, poichè naturalmente l’uomo nasce dall’unione di un uomo e di una donna. In poche parole, ha il suo fondamento nelle nostre mutande. È qualcosa di animale – il maschio e la femmina – e nello stesso tempo noi crediamo che questa animalità sia molto spirituale, di una spiritualità divina, iscritta nella carne: «Dio creò l’uomo a sua immagine, maschio e femmina li creò». C’è qualcosa che è donato, e non costruito. Tanto che anche il patriarca, come si vede nella Bibbia, è sempre sorpreso e pure esasperato dai suoi figli. Pensate alla storia di Giacobbe. Pensate a Giuseppe, il padre di Gesù. Non si può certo dire che tengono sotto controllo la situazione. L’autorità del padre si trasforma in autoritarismo quando finge di avere tutto sotto controllo e di essere perfettamente competente. Ma come ho detto prima, la sua vera e più profonda autorità sta nel riconoscere che non è all’altezza, e che è obbligato a volgersi verso il Padre eterno.



Come parlare di Dio oggi? L’Anti-manuale di evangelizzazione di Fabrice Hadjadj

maggio 3, 2013 Redazione
Nel suo nuovo libro il filosofo francese racconta la sua conversione. E di Dio che da “tappabuchi” si è fatto “apri-abisso”. Soprattutto una presenza carnale, anche nei nemici
È oggi in libreria Come parlare di Dio oggi? Anti-manuale di evangelizzazione del filosofo francese Fabrice Hadjadj. Edito da Edizioni Messaggero  Padova (pagine 180, euro 13), il libretto è stato anticipato in alcuni suoi stralci sul quotidiano Avvenire.
Hadjadj, filosofo, saggista e drammaturgo che i lettori di tempi.it conoscono bene, racconta in questa sua opera la sua “conversione”, parola che, confessa, «prima odiavo». «Quando qualcuno diceva “Dio” – scrive Hadjadj -, mi sembrava che mettesse fine a qualsiasi discussione. Aveva introdotto con l’imbroglio un altro jolly nel mazzo di carte». Il filosofo scrive che quella parola «era un abracadabra, una formula magica e mi verrebbe da dire addirittura una “soluzione finale”, con tutto ciò che può comportare di terrorizzante un’espressione del genere. Una soluzione finale all’interno di una discussione che, d’un tratto, veniva soffocata da questa parola grossa e massiccia».
Per questo, dice Hadjadj «la mia conversione consistette dapprima in una conversione di vocabolario. All’epoca del mio ateismo ero obbligato a confessare un mistero dell’esistenza. Pensavo tuttavia che la parola “Dio” non avesse nulla a che vedere con tale mistero, che fosse addirittura un modo per evitarlo. Avevo la pretesa di spiegarne l’esistenza nel lessico, sforzandomi di svicolare così: negazione della morte, volontà di potenza, fuga nell’aldilà, sublimazione nevrotica del “papà/ mamma, aiuto!”…»
NON E’ UN TAPPABUCHI. Oggi, però, «questa parola non suona più ai miei orecchi come un “tappabuchi”, ma come un “apri-abisso”. È probabile che alcuni la usino come “tappabuchi” (credenti o meno, d’altronde). Non la capiscono affatto, allora. Non ne sentono, per così dire, la musica. Perché il significante “Dio” non discende da un desiderio di soluzione finale: viene dal riconoscimento di un’assenza irrecuperabile. Non sorge tanto come risposta quanto come chiamata. Dà il nome all’evidenza di ciò che mi sfugge, all’esigenza di ciò che mi supera».
Hadjadj dice di ricordare spesso questa elementare verità ai seminaristi: «Quando siete in missione di evangelizzazione e una persona vi dichiara: “Io non credo in Dio”, state attenti, non saltategli addosso dicendo: “Ma sì, bisogna credere in Dio!”, perché magari non ci credete neppure voi al “Dio” di cui sta parlando lui! Chiedetegli prima cosa intende con quella parola. E chiedetevi se vi siete mai accorti della vertigine che porta con sé».
AMARE IL NEMICO. Ma la parte più interessante dello scritto di Hadjadj anticipato da Avvenire è quando il filosofo argomenta sulla difficoltà tutta moderna di porre una cesura tra “Dio” e il prossimo. Come se la fede possa essere qualcosa di disincarnato, etereo, senza un possibile riferimento alle persone a noi più vicine, che incontriamo, in cui ci imbattiamo. «Parlare di Dio – dice Hadjadj – vuol dire anche amare, in maniera indissociabile, colui a cui ne parliamo, perché vuol dire riverberare su di lui la Parola che gli dà l’esistenza e che quindi desidera infinitamente che lui esista. Capite la difficoltà? Sono missionario e un bel giorno mi trovo davanti a qualcuno che mi è ostile. Vengo ad annunciargli la Parola di Dio, ma visto che tale Parola mi dice che Dio è provvidenza, mi tocca ammettere che, questo tipaccio, me lo piazza in mezzo alla strada Dio stesso. Di conseguenza, devo innanzi tutto onorarlo questo tipaccio, devo riconoscere che, anche se mi sta parecchio antipatico, anche se è tremendamente contrario ai cristiani, come persona è eternamente voluto dall’alto e ha sempre qualcosa da insegnarmi».
I FANFARONI E DIO. È un problema di prospettiva e di “scandalo”, perché  «ogni fanfarone si rivela essere parola di Dio». «Certo – precisa il filosofo -, non tanto per via delle intenzioni ostili, quanto per la sua presenza. È la Parola di Dio a conferirgli l’essere. È l’amore di Dio che lo trae fuori dal nulla. Magari l’ignora, ma se sono un apostolo del Creatore, io non posso ignorarlo. Devo andare oltre l’antipatia. Meravigliarmi prima di tutto del fatto che esiste».
Sull’amore al prossimo «c’è la verità della mia identità cristiana. Se non sono capace di meravigliarmi sinceramente, di fronte all’esistenza, per esempio di Michel Onfray (prendo un ateo in Francia, ma avrei potuto scegliere allo stesso modo un fondamentalista in Iran), non sono cristiano, perché Michel Onfray, anche se con la bocca pronuncia idiozie sulla Bibbia, con il suo essere rimane ugualmente una parola di Dio, certo imbavagliata, ma comunque divina nella sua apparizione».
Amate i vostri nemici. «Una posizione decisamente destabilizzante», scrive il pensatore francese. «Mi tocca parlargli di Dio lasciandomi prima interpellare da lui, rifiutarne l’ignoranza accogliendone la presenza, contestarne l’inimicizia attestandone la bontà originaria. Ed è proprio lo stupore davanti alla sua bontà originaria, al di là della nostra antipatia iniziale, che può permettermi di dominare fino al cuore del nemico».

Hadjadj: «Si va verso il transumano. La difesa della carne è propria del cristianesimo»

 aprile 11, 2013 Leone Grotti
Intervista al filosofo francese sui risvolti della manifestazione anti nozze gay: «La Francia vive una crisi antropologica, e questo è una grazia»
Fabrice_Hadjadj«Quello che sta succedendo in Francia in questo momento è una grazia». Tenendo conto che il filosofo francese Fabrice Hadjadj sta parlando dell’approvazione da parte del governo socialista in Francia del matrimonio gay e della quasi totale censura di un milione di persone che scendono in piazza per protestare, si potrebbe pensare che è impazzito. Ma il direttore dell’Istituto europeo di studi antropologici Philanthropos di Friburgo (Svizzera), che ha rilasciato un’intervista a tempi.it a margine del convegno che si è tenuto ieri all’Università Cattolica di Milano dal titolo “È ancora tempo di credere”, ha buone ragioni per usare la parola “grazia”, pur affermando che la Francia è nel bel mezzo di una «crisi antropologica» dominata da una «tecnocrazia che vuole trasformare l’umano».
Professore Hadjadj, partiamo dal principio. Il governo socialista di Francois Hollande vuole legalizzare matrimonio e adozione gay. E, a meno di svolte imprevedibili, ce la farà.In Francia c’è un governo di sinistra che non può condurre una politica di sinistra, perché la crisi economica gli impedisce di mantenere le promesse di ordine sociale fatte in campagna elettorale. Quindi la sola cosa che gli resta è cambiare la legge. Ma legalizzando il matrimonio gay questo governo di sinistra tradisce la sua natura. Il vero socialismo infatti non tocca la famiglia, che è il pilastro della società, ma cerca di provvedere a una migliore distribuzione delle ricchezze. Questo è un grosso problema e il governo di Hollande cerca di nascondere la sua impotenza dietro questa legge.
Come si è arrivati in Francia a proporre la legalizzazione del matrimonio gay?
Malgrado tutto, e indipendentemente da questa circostanza, in Francia c’è una crisi antropologica. Questa crisi antropologica fa sì che noi non crediamo più davvero all’umano e stiamo andando verso qualcosa che rientra nell’ordine del transumano. Tutto questo grazie al regno della tecnica. Infatti, quello che non si dice normalmente è che affinché ci sia uguaglianza tra un matrimonio fra un uomo e una donna e uno fra due uomini o due donne ci vuole la tecnica. Una coppia dello stesso sesso per procreare deve ricorrere a qualcosa che riguarda più la fabbricazione che la nascita. Dietro a tutto ciò c’è una tecnocrazia che vuole trasformare l’umano.
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Sembra che la Francia abbia anche reagito. Per due volte, contro questo progetto di legge, sono scese in piazza un milione di persone.Sì, c’è stata una grande manifestazione contro il matrimonio gay ma i media francesi non ne hanno quasi parlato. Questo fa capire quanto sia grande la censura su quello che sta succedendo. È noto il caso dell’uomo arrestato perché indossava la maglia della Manif Pour Tous, una cosa che in Francia non si era mai vista prima. Ma resta il fatto che quello che sta avvenendo in questo momento è una grazia.
Una grazia?
Sì, perché non si era mai presa una coscienza tale del mistero dell’Incarnazione. Siamo in una situazione in cui sono la Chiesa e i cristiani che si trovano a difendere la carne e il sesso. Siamo completamente usciti dal puritanesimo per prendere coscienza che la sessualità così come ci è donata viene da Dio ed è spirituale. E questo è un passo avanti straordinario che è stato fortemente preparato da Giovanni Paolo II. La difesa del corpo e della carne, infatti, è una peculiarità del cristianesimo. Durante la Manif Pour Tous, dei cristiani portavano cartelli con questo slogan: “Vogliamo il sesso, non il genere”. È una grande novità questa affermazione del sesso, contro l’ideologia del gender, e quelle persone lo dicevano in quanto cristiani.
Dal punto di vista politico non si può dire che la manifestazione sia stata un successo.
Non era una manifestazione politica ma antropologica. I cristiani si sono resi conto che la posta in gioco non è dominare in un rapporto di forza, non è ristabilire la cristianità ma testimoniare la verità. Ed è per questo che sulla strada c’erano anche grandi filosofi come Rémi Brague, che non aveva mai partecipato a una manifestazione. È una bella novità che i cristiani si mobilitino non tanto per la difesa della cristianità ma perché bisogna testimoniare la verità. Grazie a questa situazione inedita si avrà una ricomposizione totale dell’azione dei cristiani nella società.
Intanto però la legge sul matrimonio gay sarà approvata dal Senato.
Il matrimonio civile era già un falso matrimonio, lo definirei un divorzio rimandato. Non a caso i gay stanno già chiedendo il divorzio, ancora prima di avere il matrimonio. Se lo scopo fosse stato salvare il matrimonio civile, allora non sarebbe valsa la pena di fare manifestazioni. Siamo allo stadio ultimo di una distruzione che risale al 19esimo secolo. La posta in gioco non è impedire la legge ma dire: ecco la verità del matrimonio. In questi giorni si è visto che i cristiani non hanno bisogno dello Stato, dei giornali, della televisione per comunicarlo. La via da percorrere non è più conquistare un potere che sta affondando ma rifondare la dimensione politica dal basso, attraverso l’evangelizzazione.
La sconfitta nasconde una vittoria?
Sì, è l’inizio di qualcosa di nuovo: i cristiani si sono ritrovati e tutti hanno sentito di esistere davvero come comunità. Il cristianesimo francese era segnato dall’individualismo e improvvisamente, in questa situazione, si è visto che non solo si esisteva insieme ma che la piazza era nostra. Le manifestazioni dei cristiani e delle comunità ebraiche contro il matrimonio gay sono state molto più numerose delle altre. Hanno sempre detto che la piazza era della sinistra, degli artisti e anche degli omofili, ma non è così. E mi raccomando di scrivere omofili, non omosessuali, perché il termine omosessualità costituisce il rifiuto della sessualità, quindi non è giusto usare questa parola, non descrive bene la natura della questione. Insisto: questa è una situazione molto gioiosa, molto bella.
Eppure i cristiani non sono mai stati così poco ascoltati.
Se uno ha la nostalgia della cristianità, del tempo in cui lo Stato era cristiano e le leggi erano cristiane, allora può considerare tutto un disastro già da diverso tempo. Se invece uno ha il desiderio non della cristianità ma del cristianesimo, allora questo momento è molto interessante e molto bello.

Hadjadj: Non chiamateci fascisti, integralisti, omofobi. Noi siamo, semplicemente, dei “meravigliati”

aprile 20, 2013 Fabrice Hadjadj
Non siamo degli indignati. Ciò che ci anima è un sentimento più primitivo, più positivo, più accogliente: si tratta di quella passione che Cartesio considera la prima e la più fondamentale di tutte: l’ammirazione.
Per gentile concessione dell’autore traduciamo un inedito del filosofo Fabrice Hadjadj, apparso sul sito printempsfrancais.fr e intitolato “Meravigliatevi! Per un manifesto dei meravigliati”.
Non siamo degli indignati. Ciò che ci anima è un sentimento più primitivo, più positivo, più accogliente: si tratta di quella passione che Cartesio considera la prima e la più fondamentale di tutte: l’ammirazione. Essa è prima perché la si sperimenta di fronte alle cose che ci precedono, che ci sorprendono, che non abbiamo pianificato noi: i gigli dei campi, gli uccelli del cielo, i volti, tutte le primavere…  Prima di soddisfarci dell’opera delle nostre mani e della vittoria dei nostri princìpi, ammiriamo questo dato naturale. Questa è la colorazione affettiva che tentiamo di fare entrare nelle nostre azioni. Esse non sono motivate da uno stato d’animo triste o di rivendicazione. Non sono imbevute di amarezza. Non vorrebbero essere altro che rendimenti di grazie. Perché, a partire da questa ammirazione primigenia, esse devono fiorire in gratitudine verso la vita ricevuta, verso la nostra origine terrestre e carnale: il fatto che non ci siamo fatti da soli, ma che siamo nati, da un uomo e da una donna, secondo un ordine che sfuggiva a essi stessi.
Lungi dall’essere degli spiritualisti o dei moralizzatori, riconosciamo quella che Nietzsche chiamava «la grande ragione del corpo» e anche «lo spirito che opera dalla vita in giù». Sì, noi siamo meravigliati dall’ordinazione reciproca dei sessi, dal genio della genitalità. Certo, questa organizzazione stupefacente è come il naso in mezzo al nostro volto: tendiamo a non vederlo. Ci inorgogliamo di avere costruito una torcia, e dimentichiamo lo splendore del sole; idolatriamo la magia delle nostre macchine, e disprezziamo la meraviglia della nostra carne. Questa meraviglia la nascondiamo sotto le parole «biologico», «determinismo», «animalità», e assumiamo un’aria di superiorità, vantando le libere prodezze della nostra fabbrica. E tuttavia, che cosa c’è di più stupefacente di questa unione degli esseri più differenti, l’uomo e la donna? E cosa c’è di più sorprendente del loro abbraccio, chiuso sul suo proprio godimento, e che tuttavia si strappa, secondo natura, per permettere l’avvento di un altro, di un’altra differenza ancora: la futura piccola peste, il già disturbante, colui che chiamiamo «il bambino»? Jules Supervielle esprime con una precisione più che scientifica che la riduzione biologistica ci nasconde: «Ed era necessario che un lusso d’innocenza/ concludesse il furore dei nostri sensi?».
Perciò le nostre manifestazioni non sono quelle di una corporazione, ma quelle dei nostri corpi. Non partono da uno scopo politico o partitico, ma da un riconoscimento antropologico. Non cercano di prendere il potere, ma di rendere una testimonianza culturale a un dato di natura, in uno slancio di gratitudine. In greco «natura» si dice «fisis», parola che viene dal verbo «fuein», che significa «apparire» o. più precisamente, «manifestarsi». La natura non è anzitutto una riserva di energie, né una miniera di materiali manipolabili secondo la nostra volontà, ma una manifestazione di forme organizzate, spesso splendide al nostro sguardo.
Certo, la natura è anche ferita, disordinata: c’è la sofferenza, c’è la morte, c’è l’ingiustizia. Ma queste rovine ci fanno orrore proprio perché abbiamo anzitutto intravisto la sua generosità zampillante: se non avessimo percepito la bontà delle sue forme, non saremmo scandalizzati da ciò che la sfigura… Le nostre manifestazioni non hanno dunque altro motivo che di attestare lo splendore di questa manifestazione primigenia. Non riguardano il rapporto di forze. Si fondano su un’esigenza di ospitalità verso questa presenza reale, fisica, iniziale (non segare il ramo su cui siamo seduti, non pretendere di far sbocciare il fiore forzando il bocciolo). Ed è a causa di questo che le nostre manifestazioni dureranno fintanto che ci saranno peni e vulve, e la loro ordinazione reciproca anzitutto involontaria, e la loro fecondità che mette in discussione la nostra avarizia.
Ma è esattamente questa esigenza di ospitalità, questa relazione di meraviglia e di gratitudine verso la nostra origine, diciamo pure questo rapporto di debolezza, che risultano insopportabili a coloro che concepiscono tutto in termini di rapporti di forza. Vorrebbero che noi non fossimo altro che una fazione. Preferirebbero che mettessimo le bombe. Questa violenza gli risulterebbe meno violenta della nostra manifestazione elementare, quella della semplice presenza fisica di un uomo e di una donna, e di un bambino di cui essi sono anche il padre e la madre… Se non si trattasse che della nostra opinione, se non fosse altro che la nostra arroganza, potrebbero farci tacere. Ma come far tacere la presenza silenziosa del corpo sessuato?
Che ci sia permesso – dopo il richiamo di ciò che siamo per essenza: dei meravigliati – di insistere su cinque conseguenze importanti per noi come per gli altri. Perché non siamo al riparo dall’ingratitudine, e a forza di non essere riconosciuti nel nostro meravigliarci, l’indignazione può finire per offuscare questo fondamentale meravigliarsi, e rischiamo di cadere sia nello scoraggiamento, sia in una violenza illegittima.
1. Alcuni ci accusano di essere dei «fascisti», procedimento linguistico molto riduttivo, che permette di designare un nemico senza ascoltarlo, e che si richiama precisamente ai procedimenti del fascismo storico. Altri ci tacciano semplicemente di essere dei «reazionari», come se il fatto di reagire fosse in sé un male, e non un segno di vitalità, e come se la retorica del «progresso», che è stata tanto utile al Terrore e al totalitarismo, non fosse ormai esaurita. Altri diranno che facciamo quello che facciamo perché siamo dei «cattolici», o degli «ebrei integralisti», o dei «fondamentalisti musulmani»…
Ma no, siamo soltanto dei francesi, e più semplicemente ncora sia degli uomini e delle donne, molto lontani da qualsiasi puritanesimo e da qualsiasi fondamentalismo, ci incantano le natiche e non ci repelle l’ammirazione della congiunzione improbabile del «pisello» e della «passerina» e del pancione che ne deriva. Con maggiore precisione ci si potrebbe collocare fra i fautori di un’ecologia integrale. Ma questo genere di classificazione viene rifuggita per timore di dover riconoscere le contraddizioni dei numerosi movimenti ecologisti odierni, ma anche perché non c’è niente, in fondo, che ci si può rimproverare, ovvero il rimprovero può colpirci soltanto colpendo anche il dato rappresentato dalla carne. Se siamo fascisti, bisognerebbe concludere che la natura stessa è fascista, e che è necessario eliminarla, cosa che presenta un certo numero di inconvenienti.
2. Molti non comprendono perché manifestiamo contro una riforma del codice civile che soddisfa gli interessi di qualcuno mentre non lede i nostri (non si parla, comunque, degli interessi del bambino). Effettivamente, ecco qualcosa che lascia senza parola gli utilitaristi di ogni sponda: non manifestiamo per il trionfo dei nostri interessi particolari. Cerchiamo soltanto di testimoniare ciò che è anteriore a ogni interesse, cioè il dono della nascita.
3. È esattamente ciò che arriva a nascondere lo slogan dell’«uguaglianza» che ci viene servito in tutte le salse, senza riflettere su ciò che questo termine significa, sulle minacce di livellamento che comporta, ovvero su quelle di «riduzione» che ha sempre contenuto. C’è un’evidente e naturale diseguaglianza fra la coppia formata da un uomo e una donna e quella di due uomini o di due donne.
Per rendere uguali le condizioni, è necessario ricorrere all’artificio, e passare dalla nascita alla fabbricazione, dal “born” al “made”… Dietro la pretesa legalizzazione giuridica, c’è dunque un assoggettamento tecnocratico, e il progetto di produrre persone non come persone, dunque, ma come prodotti, in base ai nostri capricci, secondo la legge della domanda e dell’offerta, in conformità ai desideri fomentati dalla pubblicità: «Un bambino à la carte, la vostra piccola cosa, l’accessorio della vostra autorealizzazione, il terzo compensatorio delle vostre frustrazioni; infine, per una modica somma, il barboncino umano!».
4. Ecco perché non siamo «omofobi». Siamo meravigliati dai gays veramente gai, dai «folli» senza gabbia, dai saggi dell’inversione. L’amore della differenza sessuale, così fondamentale, con quello della differenza generazionale (genitori/figli), ci insegna ad accogliere tutte le differenze secondarie. Se io, uomo, amo le donne, così estranee al mio sesso, come potrei non avere simpatia, se non amicizia, per gli omosessuali, che mi sono, in definitiva, molto meno estranei?
D’altra parte ce ne sono sempre stati, che non avevano paura di affermare la loro differenza, di assumere una certa eccentricità, un lavoro ai margini. Allo stesso modo, noi crediamo che ciò che è veramente «omofobo» è lo pseudo-«matrimonio gay». Siamo di fronte a un tentativo di imborghesimento, di normalizzazione dell’omofilia, di annientamento della sua scortesia sotto il codice civile. Che bel dono questo «matrimonio» che non è altro che un arrangiamento patrimoniale o un divorzio rinviato! Purché gli omosessuali rientrino nei ranghi, e che siano sterilizzati soprattutto nella fecondità che è loro propria.
Perché, chi ignora la loro fecondità artistica, politicae, letteraria, nella compassione? Gli antichi Greci la intendevano così: liberi dai doveri familiari, potevano consacrarsi maggiormente al servizio della Polis. Sapevano che i loro amori avevano qualcosa di contro-natura, ma non per questo disprezzavano la natura (di là, molto spesso, l’amore per la loro madre – vedi Proust o Barthes), e vi trovavano risorse per l’arte.
5. Come potremmo, meravigliati come siamo, lanciarci in azioni violente, denigratorie, esclusive? Una volta di più: non cerchiamo una vittoria politica. Non siamo nemmeno sicuri che ci sia veramente qualcosa da salvare in questo matrimonio privatizzato, che non ha più nulla di repubblicano da parecchio tempo. Ed è per questo che, malgrado la sconfitta legislativa (ma quando vediamo la trappola mediatica e partitica nella quale si trovano i nostri legislatori, ci domandiamo se davvero dobbiamo occuparci di questo), noi continueremo a manifestare: senza armi, senza odio, persino senza slogan, ma con la nostra piccola epifania di creature di carne, ossa e spirito.

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